da Il Fatto Quotidiano
Marco Palombi
Un vero servitore dello Stato non dorme
mai, nemmeno mentre tutti gli altri sono distratti dalla campagna
elettorale, da Sanremo o dal gran rifiuto di Joseph Ratzinger. E
infatti il ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, ha portato e
fatto approvare venerdì in Consiglio dei ministri il decreto che
istituisce la nuova Autorizzazione unica ambientale (Aua) per le
Piccole e medie imprese, che ingloba una serie di adempimenti
burocratici in vigore fino ad oggi. Bene, si dirà, semplificare è
giusto.
Vero in generale, ma il diavolo – al solito – si nasconde
nei dettagli e la linea che separa uno snellimento burocratico dalla
deregulation è sottilissima: “Più che una semplificazione –
denuncia Angelo Bonelli, leader dei Verdi e candidato di Rivoluzione
Civile – è un tana libera tutti per chi inquina, un regalo
elettorale per un sistema produttivo che lo stava aspettando con
ansia: l’interesse dell’impresa a risparmiare tempo e denaro è
prevalente rispetto alla tutela dell’ambiente e della salute”.
Non ci si lasci nemmeno ingannare dal fatto che le nuove norme
riguarderanno solo le Pmi. Questo non è affatto un provvedimento di
nicchia: piccole e medie sono quelle imprese che hanno meno di 250
dipendenti e una cinquantina di milioni di fatturato annuo, a spanne
l’80% di chi produce in Italia.
Ora vediamo nel dettaglio quali sono
gli aspetti più preoccupanti di questa norma. Intanto, all’articolo
3, la lunghezza straordinaria di questa nuova autorizzazione: si
passa dai cinque anni attuali a ben 15. Curiosamente lo stesso
governo ammette che tanto il Consiglio di Stato quanto le commissioni
parlamentari gli avevano fatto presente che quel lasso di tempo è un
po’ troppo lungo: purtroppo “non è stato possibile accogliere
tale suggerimento in quanto alla predetta riduzione conseguirebbe un
aumento degli oneri a carico delle imprese” e questo contrasta con
la lettera del decreto. Semplificazioni di febbraio, che è la fonte
primaria di questo regolamento.
In questi 15 anni, potrebbe pensare
qualcuno, ci saranno però allora frequenti controlli e un rilevante
apparato di sanzioni per chi non rispetta le regole. Macché:
all’articolo 9 si prescrive che ci sarà solo un monitoraggio
annuale sull’attuazione della nuova Aua (vale a dire sul fatto se
la semplificazione funziona). Controlli e sanzioni? Non ci sono.
Anche stavolta il governo ammette nella sua relazione che entrambi
gli erano stati richiesti dalle Regioni, ma – purtroppo anche
stavolta – non si può perché ci si è dimenticati di inserirli
nel dl Semplificazioni e quindi il regolamento non li può creare dal
nulla. E così potranno lavorare per 15 anni praticamente senza
controlli robette come inceneritori, discariche, fonderie, raffinerie
e impianti pericolosi d’ogni genere. Lo si evince anche dalle
correzioni all’articolato originale che Il Fatto Quotidiano ha
potuto visionare: la prima formulazione escludeva infatti dal rinnovo
semplificato “scarichi di sostanze pericolose”, “emissione di
sostanze cancerogene, tossiche per la riproduzione o mutagene o di
sostanze di tossicità e cumulabilità particolarmente elevate” e
via dicendo, previsione poi cancellata con un bel tratto nero in
orizzontale.
Non bastasse, grazie alla soppressione
di un comma del Codice Ambientale, la nuova Autorizzazione unica
potrà essere per così dire parcellizzata, ovvero concessa senza
“considerare l’insieme degli impianti e delle attività”
presenti nello stabilimento che la richiede. Non manca nemmeno
qualche elemento pazzoide: le regioni potranno infatti “definire
ulteriori criteri per la qualificazione delle modifiche sostanziali”
e altri cambiamenti minori, finendo in sostanza per complicare la
giungla normativa e costringendo imprese che lavorano su più
territori a seguire regole diverse per ottenere lo stesso via libera.
Infine, una nota di colore: il governo
che voleva abolire le Province – e il premier che vuole abolirle se
gli italiani lo voteranno – ha deciso che il soggetto a cui fa capo
il rilascio della nuova Aua saranno… le Province. L’attivismo di
fine mandato di Clini, peraltro, non si limita alla deregulation
ambientale per le Pmi, ma include un controverso decreto che
permetterà ai cementifici di bruciare nei loro impianti il
cosiddetto Css (combustibili solidi secondari). Il dl ha avuto il
parere contrario della commissione Ambiente della Camera, ma il
ministro ha già annunciato che questo non sarà sufficiente a
fermarlo: quel parere non è vincolante. La curiosa motivazione dei
tecnici del ministero è che molti cementifici già bruciano il
petcoke, che è molto più inquinante del Css, quindi con le nuove
regole ci sarebbe un miglioramento delle emissioni in atmosfera. Ora,
a parte l’idea che il problema dei rifiuti si risolve solo con la
combustione, c’è il fatto che bruciando Css i cementifici
inquinano assai di più rispetto ai “normali” inceneritori e
possono per di più farlo a norma di legge, visto che hanno limiti di
emissione più alti. “Clini dovrebbe dare a Monti consigli per
l’Agenda green – conclude Bonelli – ma tra decreti sull’Ilva,
silenzio assenso per costruire persino in aree protette, tagli ai
parchi nazionali e questi ultimi atti può al massimo scrivergli
l’Agenda black”.
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