“Bruciare biomasse per produrre elettricità o teleriscaldamento produce inquinamento, aumenta le emissioni di gas serra, blocca l’innovazione tecnologica e non può essere incentivata con denaro pubblico (certificati verdi). Gli usi energetici delle biomasse sono meno ecologici di quanto si voglia far credere. Negli inventari europei delle immissioni di diossina e idrocarburi policiclici aromatici, il primato assoluto (stime 2005) spetta alla combustione di biomasse”.
Sono le considerazioni di Federico Valerio, uno dei maggiori esperti di chimica ambientale in Italia.
In base agli incentivi rappresentati dai certificati verdi si è andata formando una bolla finanziaria inquinante sulle biomasse, che sta spingendo a dismisura questo tipo di impianti a tutto discapito delle fonti davvero pulite di energia rinnovabile, quali il fotovoltaico, il mini eolico e il mini idroelettrico, distorcendo così il mercato.
“In Italia si parla molto di filiera corta, ma pochi sanno cosa sia concretamente. La biomassa è un prodotto che se viene industrializzato perde la sua rinnovabilità. Va distribuito sul territorio presso tante aziende agricole supportate da infrastrutture da filiera. Filiera corta riporta ad un aspetto commerciale che comunque è l’unico che permetta di poter realizzare impianti a biomassa con un project financing che non superi i 10 anni di ammortamento del capitale iniziale e senza sostegni pubblici”.
E' il pensiero dell'ambientalista Berbera van de Vate, olandese residente in Italia.
Sono questi i punti partenza dai quali sviluppare un corretto ragionamento sulle centrali a biomasse, così di moda oggi, così sconosciute nei loro reali effetti sull'ambiente.
Le piante, come ogni vegetale, crescendo incorporano carbonio che rilasciano nell’aria una volta finito il loro ciclo vitale. La somma finale di tale processo del carbonio è zero.
Ma i “contabili” hanno dimenticato due cose fondamentali per l’effetto serra: il tempo e la massa.
Il tempo di rilascio di CO2 da parte delle piante morte è di decenni, se non di secoli, mentre la loro combustione industriale accelera enormemente tale processo di emissione. Le piante, inoltre, muoiono una alla volta e separatamente nel territorio, a differenza della loro combustione industriale, massiva, continuata e concentrata in uno stesso identico posto.
Con l'incenerimento industriale delle biomasse, le zero emissioni ce le sogniamo: il principio astratto deve fare i conti con il concreto delle enormi quantità di CO2 emesse tutte in una volta.
Viene quindi l'argomento della sostenibilità di tali pratiche.
L’uso di legno da ardere per produrre calore per usi domestici e industriali è da considerarsi sostenibile solo se i pellet o il cippato non derivano direttamente da legna vergine prodotta dal taglio dei boschi, ma da scarti di lavorazione di biomasse primarie: segherie, falegnamerie, lavorazioni di prodotti agricoli con scarti (olive, nocciole), e solo nel raggio di pochi chilometri dall’impianto.
Nessun imprenditore serio, pur disponendo di biomasse, realizzerebbe una centrale termoelettrica con quelle, perché le biomasse sono un combustibile povero, con un potere calorifico troppo basso per renderlo conveniente. Il loro uso diventa appetibile solo attraverso gli incentivi statali, i certificati verdi, la tassa del 7% applicata alle nostre bollette energetiche.
In tal modo il mercato dell’energia viene scombussolato e drogato e si comprende il motivo perché della forsennata rincorsa alle centrali a biomasse di sindaci e amministratori.
Per essere realmente economica, infatti, una centrale termoelettrica, da dati tecnici e di mercato, non può avere una potenza inferiore a 20 megawatt.
Un impianto di tal misura ha bisogno di 100 mila tonnellate annue di biomassa (5 mila tonnellate annue per ogni MW prodotto), impossibili da reperire in loco. Più probabilmente la sua gran parte proviene dai tagli e dai disboscamenti dell’Amazzonia o di altre foreste tropicali, materiale che viene poi trasportato a grandi distanze per essere impiegato come combustibile.
Un impianto con queste caratteristiche è quello di Dobbiaco in val Pusteria (25 MW), che permette il teleriscaldamento domestico e industriale di due cittadine: Dobbiaco e San Candido.
L’industria del legno in tutto l’Alto Adige è fiorente ma certamente non è in grado di produrre scarti e segatura per quell’impianto, e per tanti altri di pari potenza presenti nella regione. Sono gli abitanti stessi a dire che la gran parte della biomassa viene dall’Olanda.
A sua volta quel piccolo stato non ha certo una grande forestazione, ha però il più grande porto europeo, Rotterdam, in cui arrivano navi cariche di legname da ogni parte del globo.
In Alto Adige sono furbi. Eliminano il riscaldamento a gasolio abbattendo l’inquinamento, forniscono un servizio centralizzato alla collettività ad un costo accettabile, non disboscano minimamente le loro stupende pinete, indispensabili al loro fiorente turismo.
Come realizzano tutto ciò? Usando i soldi delle bollette energetiche di noi tutti (certificati verdi) per comprare pezzi di foresta Amazzonica da bruciare.
Proprio bravi! Alla faccia degli accordi di Kyoto e della sostenibilità.
Ci sono impianti assolutamente uguali, se non peggiori, anche in Calabria e Puglia, che si riforniscono alla stessa maniera tramite i porti di Crotone e di Taranto.
Il concetto di rinnovabilità.
La comunità europea, a differenza del nostro paese, ha sospeso gli incentivi alle coltivazioni per la produzione di biodiesel. Se la rinnovabilità delle coltivazioni fogliacee non è in discussione, lo è molto la sottrazione di terreni utili alla produzioni di alimenti che la speculazione legata all’energia induce.
Si tratta di vaste estensioni sottratte a coltivi di qualità e destinate a monoculture quali la soia e la colza, da cui ricavare oli da bruciare nelle centrali a biomasse recuperando incentivi regionali e certificati verdi e l’accesso a finanziamenti europei. Grandi estensioni destinate a pioppeti, il cui ciclo di rinnovabilità è maggiore (circa 2-3 anni), ma ugualmente appetibile.
Ma la rinnovabilità che più ci interessa è quella delle piante, dei nostri boschi.
La rinnovabilità di una quercia o di un faggio è di 20 anni minimo, ma più ragionevolmente di 30. Se un “piccolo” impianto da 1 MW che brucia cippato di legna vergine ne ha bisogno di 25.000 quintali annui, questi corrispondono a 50 mila quintali di ramaglie e di tronchi.
Il doppio del cippato, perché contengono molta più umidità che la cippatura deve eliminare prima di arrivare alla combustione. Questi 50 mila quintali corrispondono ad un bosco di 50 ettari, cioè ad un appezzamento di 1 km per 1/2 km.
La centrale che vorrebbero costruire a Nacca di Vaestano, comune di Palanzano, da quanto dichiarato dalla ditta, dovrebbe appunto bruciare 50 mila quintali di “ramaglie” all’anno.
Calcolando la rinnovabilità dei boschi avrebbe bisogno di 1000-1500 ha di bosco in vent’anni, cioè di un tratto di 10-15 km di lunghezza per 1 km di altezza.
In pratica, per esemplificare, tutto il tratto di pendio boscoso tra Vaestano e Rigoso perderebbe il suo manto arboreo attuale.
Così sarebbe per la zona della val Parma tra Corniglio e Bosco se venisse costruita la centrale proposta per Bosco. Ma così sarebbe per tante altre valli, perché gli altri sindaci non sarebbero certo da meno, ingordi come sono di certificati verdi e di finanziamenti europei.
Il capitolo delle emissioni nocive
Bruciare legna provoca non solo emissioni di CO2 ma anche di sostanze inquinanti e nocive: CO, NOx, PM10, PM5, PM1, benzopirene, diossine e ossidi di metalli pesanti.
Uno studio dell’Arpa di Trento ha quantificato che l’emissione di monossido di carbonio e degli ossidi di azoto da combustione di legna è venti volte maggiore di quella da combustione di GPL.
Ma la cosa più pericolosa in assoluto, come sostiene Stefano Montanari, è che dalla combustione non svanisce nulla. I gas prodotti, una volta a contatto dell’aria, si combinano in mille diversi modi del tutto imprevedibili e forse ancora più nocivi.
Insomma, ogni bruciatore industriale di legna emette diossina. L’impianto, poi, ha bisogno di una consistente quantità di acqua di lavaggio che fatalmente tornerà in falda, inquinandola.
Da subito però inquinerà i nostri torrenti, già ridotti davvero a poca cosa per le troppe captazioni.
Il caso di Monchio
La centrale in costruzione a Monchio delle Corti, cui nessuno fa cenno, è un rebus.
Dai documenti del progetto si evince che la potenza installata è uguale alle altre : 928 Kw ( in pratica 1 Mw).
Tutti i sindaci si attengono al piano provinciale sulle biomasse che non prevede specifiche autorizzazioni dall’alto per al di sotto di questa potenza.
Come dire che per l’ente provincia la sostenibilità di impianti di quella taglia è accettabile di fatto.
L’impianto di Monchio non è un co-generatore, produce solo calore per il teleriscaldamento di 5 stabili: la palestra, la scuola, la casa protetta per anziani, alloggi per anziani e la sede della forestale. Sarebbero bastate cinque caldaie a cippato, con relativi filtri, una per ogni stabile, per un totale di circa 300 Kw.
Sarebbero costate senz’altro meno dell’impianto in costruzione. Un’ottima caldaia a cippato da 35 Kw, con abbattimento dei fumi, costa 15.000 euro. Per la palestra magari una da 150 Kw (33 mila euro). Costo complessivo 100 mila euro, senza contare gli incentivi statali per il rinnovo degli impianti e l’abbattimento dei fumi.
I costi della centrale prevista non sono elevati, 600 mila euro, di cui 300 mila di finanziamento europeo a fondo perduto e gli altri trecentomila presi in prestito dalla cassa depositi e prestiti dello stato ad un tasso agevolato del 3,50%.
Niente di male si dirà. Ma perché spenderne 600 mila invece di 100 mila?
Forse per incassare i fondi europei e potersene far vanto con gli elettori. Ma più probabilmente con l’intento, in seguito, di collegarsi col teleriscaldamento alle case della gente ed eliminare le obsolete caldaie a legna private così inquinanti. Intento meritorio, si dirà.
La cosa, però, richiederà molti altri soldi per creare le infrastrutture di collegamento che percorrano tutto il paese. Soldi non solo del comune, ma anche dei singoli privati che si collegheranno.
In sostanza si tratterebbe, poi, di buttare per aria tutto l’abitato, con scavi e posa dei tubi.
Ne vale la pena?
Non sarebbe meglio creare un fondo comunale per incentivare la sostituzione delle caldaie dei privati con quelle più moderne che abbattono i fumi ? Incentivi che si sommerebbero ai normali incentivi statali già esistenti per tale rinnovo? Oggi il costo di una moderna caldaia a pellet si aggira sui 5 mila euro. Le caldaie per 100 case costerebbero 500 mila euro, che sommate alle caldaie per i già detti impianti comunali darebbero proprio i 600 mila euro previsti per la centrale.
Cosa c'entra la sostenibilità con le centrali a biomasse?
Creare impianti industriali che brucino legna è antieconomico, accelera l’immissione di CO2 nell’atmosfera, accresce il taglio dei boschi a detrimento della loro rinnovabilità e della loro funzione fondamentale di polmone ossigenante e ancor più a detrimento della loro funzione di traino dell’economia turistica a fianco dei parchi.
I parchi non debbono essere delle isole di verde in una montagna soggetta a tagli indiscriminati ed alla speculazione. Al contrario devono fare da traino per una rivalutazione del valore del bosco per la montagna, indispensabile alla sua economia e per impedire il degrado dei suoli e l’accrescersi delle frane.
La nostra provincia, insieme a quella di Lucca, è la più franosa d’Europa.
Qualcosa vorrà dire.
Giuliano Serioli
Associazione Gestione Corretta Rifiuti e Risorse di Parma - GCR
Parma, 30 ottobre 2010
-554 giorni all'avvio dell'inceneritore di Parma, NOI lo possiamo fermare!
+152 giorni dalla richiesta a Iren del Piano Economico Finanziario del Pai, forse perché l'inceneritore ci costerà molto di più di 180 milioni di euro?
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