Conoscere la filiera industriale
toscana del riciclo
Tre fondamentali questioni per
correggere il sistema di gestione del ciclo integrato dei rifiuti
sono state portate all’attenzione del ministro dell’ambiente
Andrea Orlando, nel corso della visita allo stabilimento Revet,
insieme al presidente di Revet e Revet Recycling, Valerio Caramassi,
al direttore e al presidente di Cispel Andrea Sbandati e Alfredo De
Girolamo, al direttore Tecnologie dell’innovazione produzione di
Piaggio Carlo Coppola, all’assessore regionale Vittorio Bugli e al
presidente della provincia di Pisa Andrea Pieroni.
In particolare le visite hanno
riguardato i due impianti che fanno della Toscana un modello unico e
virtuoso.
L’impianto di selezione del
multimateriale che consente a Revet di servire il 90% della
popolazione toscana processando e preparando per il riciclo ogni anno
140mila tonnellate di materiali (plastiche, alluminio, acciaio, vetro
e poliaccoppiati come il tetrapak).
L’impianto Revet Recycling per il
riciclo e la granulazione delle plastiche eterogenee, la frazione
delle raccolte differenziate più critica da gestire, che non avendo
valore di mercato, altrove è destinata per lo più a recupero
energetico: in Toscana invece diventa granulo che può sostituire la
materia vergine e che può essere stampato in nuovi manufatti
plastici anche di alta gamma, come nel caso dei particolari per
automotive (ne sono un esempio i componenti degli scooter Mp3 della
Piaggio).
«Ho accettato volentieri l’invito da
parte di Cispel Confservizi Toscana – ha spiegato il ministro
dell’Ambiente Andrea Orlando - perché intendo vedere di persona
alcune delle principali eccellenze nel campo della Green Economy e
delle imprese che stanno promuovendo obiettivi di politica
ambientale, come è il caso di Revet e di Revet Recycling. Sono
convinto infatti non solo che ambiente e sviluppo economico siano fra
loro compatibili, ma che alcuni obiettivi di politica ambientale
siano perseguibili soprattutto con strumenti economici ed incentivi
ai settori industriali virtuosi».
Proprio il tema degli incentivi al
riciclo di quelle materie che non hanno valore di mercato è stata
una delle questioni affrontate nel corso della visita. «Immaginiamo
un sistema perfettamente funzionante – ha spiegato Valerio
Caramassi, presidente di Revet e Revet Recycling - sia sulla quantità
che sulla qualità della raccolta. Ebbene va considerato che ciò che
si raccoglie si divide in materiali che hanno un valore di mercato e
in materiali che hanno un disvalore di mercato (come per esempio le
plastiche eterogenee). Ecco il riciclo di tutti quei materiali che
non hanno valore di mercato dovrebbe dunque essere promosso e
incentivato dai consorzi di filiera (che per questo furono
costituiti), così come è avvenuto per le energie rinnovabili».
Il secondo tema di cui si è discusso è
stata l’urgenza di creare uno standard di misurazione delle
raccolte differenziate, perché la mancanza di standard nazionali (in
realtà previsti fin dal decreto Ronchi del 1997, ma mai attuati)
consente ad ogni regione di stabilire in modo unilaterale parametri e
metodi di calcolo delle raccolte differenziate, per cui la stessa
percentuale ha in realtà valori reali che cambiano geograficamente.
Infine il presidente di Revet ha
sottolineato al ministro la necessità di considerare in modo
prioritario gli obiettivi di riciclo effettivo (così come stabilito
dall’Ue): «Dal 2008 con la direttiva europea e dal 2010 con il suo
recepimento – ha continuato Caramassi - anche il sistema italiano
ha assunto obiettivi di riciclo, (ovvero il 50% di quello che viene
raccolto). Per questo motivo il sistema Anci/Conai non può più
essere focalizzato solo sulla raccolta differenziata e deve invece
considerare la selezione e il riciclo effettivo. Allo stesso modo
anche l’allocazione delle risorse deve essere in sintonia con
questo obiettivo ridistribuendole equamente tra raccolta
differenziata (che è lo strumento) e il riciclo (che è il fine)».
Dieci punti per il riciclo.
Il metabolismo economico è alimentato
non solo da flussi di energia ma anche da flussi di materia. I flussi
di materia non possono essere circoscritti al problema dei rifiuti
(tantomeno urbani). Sarebbe come circoscrivere i flussi di energia al
problema delle emissioni degli impianti di produzione elettrica.
Se si vuole definitivamente fare il
salto di qualità dalla salvaguardia ambientale statica ad un
ambientalismo moderno che assume la green economy come perno della
sostenibilità, occorre governare tutti e due i corni del dilemma:
energia e materia. Ciò significa politiche strategiche su risparmio,
efficienza, rinnovabilità: di materia, esattamente come di energia.
Per la materia, esattamente come per
l’energia, risparmio, efficienza e rinnovabilità sono prerogativa
delle politiche industriali. Non è possibile affrontare il governo
sostenibile dei flussi di materia a partire dalla “coda”, ovvero
dai rifiuti. Tantomeno dalla “coda della coda”, ossia dai rifiuti
urbani. Tantomeno dalla “coda della coda della coda”, ossia dagli
imballaggi (solo per dirne una: la plastica immessa sul mercato
annualmente ammonta a 6 milioni di tonnellate. Di questa “solo” 2
milioni sono imballaggi).
Risparmio ed efficienza di materia per
unità di prodotto sono pratiche che da sempre la nostra industria è
abituata a praticare. Ciò di cui siamo drammaticamente deficitari e
altrettanto drammaticamente in ritardo (benchmark Germania) è una
politica per la rinnovabilità della materia. Quella derivata dagli
scarti di processo produttivo non reimpiegabili nello stesso processo
industriale e quella derivata dagli scarti di prodotto
(post-consumo). Questo tema (messo così) è stato posto dalla Ue con
forza e in termini strategici: informatizzazione e finanziarizzazione
rendono volatile (volatile, non sinusoidale) il prezzo delle materie
prime e questo mette in difficoltà la nostra manifattura. Il
riciclo, anche laddove ha un costo maggiore, non è sottoposto alla
tirannia della finanziarizzazione.
Sugli scarti di processo non
reimpiegabili nello stesso ciclo (si parla di decine di milioni di
tonnellate), come su quelli post-consumo, occorre distinguere fra la
materia che ha un valore di mercato e quella che ha un dis-valore di
mercato. Ciò che ha un diretto valore, incrocia autonomamente il
mercato e non costituisce problema. Ciò che non ha un diretto valore
di mercato (B2B), ma ha un valore strategico-sistemico va sostenuto
con politiche economiche e fiscali. Di nuovo il parallelismo con le
energie rinnovabili aiuta: eolico e fotovoltaico (contraddizioni a
parte) sarebbero decollate senza politiche ad hoc e incentivi?
Due esempi su scarti di processo e
scarti di prodotto che non hanno un diretto valore di mercato. 1)
Continuiamo a massacrare territori e paesaggi cavando materiale
vergine che sarebbe perfettamente sostituibile da scarti di processo.
(esempio: gli scarti delle acciaierie); 2) Continuiamo a ragionare di
“plastica” (al singolare) e di “imballaggi”, ma le plastiche
(plurale) immesse sul mercato nazionale ammontano a 6 milioni di
ton/a e gli imballaggi a 2 milioni di ton/a. Se al posto del Conai
avessimo un Conam (Consorzio nazionale materia), gran parte di quei 6
milioni sarebbero “rinnovabili” attraverso la loro reintroduzione
nei cicli industriali.
Oltre ad una mirata politica
industriale sulla rinnovabilità della materia, occorre adoperare
(sia per gli scarti produttivi che per quelli post consumo) la stessa
leva adoperata per la rinnovabilità dell’energia. Basterebbe
azzerare (o ridurre drasticamente) l’IVA per rendere competitiva
materia e prodotti derivati da riciclo di materia. Ogni motore ha
bisogno di ‘carburante’ per funzionare. Così è stato per le
rinnovabili elettriche, così non può non essere per la
rinnovabilità della materia.
Abbiamo alle spalle oltre un decennio
di esperienze. Impariamo almeno da quelle. Sull’energia abbiamo
ottenuto risultati in “quel” modo. Sulla materia, oltre ad aver
circoscritto il problema ai rifiuti (solo) urbani e (solo) agli
imballaggi, ci si è illusi di far funzionare gli acquisti verdi con
indicazioni e obblighi di legge (senza sanzioni, peraltro); accordi
di programma, perorazioni e incitamenti di varia natura. L’obbligo
del 30% (minimo) del GPP per le amministrazioni esiste almeno dal
2003 (dal 1998 in Toscana è del 40% e ci sarebbero pure sanzioni…),
risultato: zero!
Il Ddl ambiente collegato alla Legge di
Stabilità, ha almeno il merito di nominare, per la prima volta, il
problema nella sua interezza. Ma siamo alle solite perorazioni senza
individuare alcun “combustibile”. In sintesi: l’art. 12 (ma
anche l’11) inquadra il problema, rimanda alle regioni il
“combustibile” che sarebbe derivabile dall’ecotassa, che nel
frattempo, complice lo spostamento degli obiettivi al 2020 (art.15),
verrebbe a mancare di gettito. Insomma: un altro colpo “a vuoto”,
mentre si inneggia al rilancio di un “nuovo manifatturiero
sostenibile”.
Le scelte vincolanti, semplici e
immediate, dovrebbero essere due. Una sul fronte della allocazione
delle risorse già oggi disponibili senza alcuna aggiunta, e una sul
fronte delle risorse dedicabili (incentivi). 1) Sulla allocazione
delle risorse disponibili c’è solo da “inchiodare” ciò che
già stabiliscono direttive, leggi e norme esistenti. Ovvero, se
l’obiettivo è il 50% di riciclo (non la raccolta che è un mezzo),
e se occorre privilegiare il riciclo prima del recupero energetico,
allora le risorse disponibili da parte delle amministrazioni debbono
essere allocate (almeno) per il 50% alla raccolta e per il 50% agli
acquisti verdi, mentre i consorzi debbono corrispondere alle imprese
che riciclano almeno (almeno) la stessa cifra euro/ton che spendono
per il recupero energetico (incenerimento). Vanno parimenti stabilite
sanzioni altrimenti non accadrà nulla. 2) Sugli incentivi la via più
semplice sarebbe agire sull’IVA. Con l’IVA al 5% (max al 10)
tutti i prodotti e/o manufatti realizzati con materiale riciclato
diventerebbero immediatamente appetibili al consumatore, alle
amministrazioni e alle imprese. Se, in subordine, si volesse
rimanere, anche solo inizialmente, sull’utilizzo della ecotassa
(riflessioni su condono a parte), allora o non si spostano gli
obiettivi o si mantengono comunque le penali. In ogni caso occorre
che il fondo sia obbligatorio e vincolato prevedendo sanzioni.