Spiega il chimico genovese Federico Valerio: “Poco più di un anno fa mi sono collegato in video conferenza con il comitato No Centrali a Biomasse di Villadossola, a pochi chilometri da Domodossola. Durante la conferenza ho chiarito come le biomasse siano un combustibile povero e inquinante e che la prassi consueta di quasi tutti gli impianti a biomasse che si propongono in Italia, sia quella di buttare letteralmente all'aria, come calore non utilizzato, oltre il 70% dell'energia termica delle biomasse bruciate”.
Quello cui fa qui riferimento Federico Valerio sono inceneritori a cippato di legna per produrre energia elettrica e per incamerare certificati verdi da incentivi pubblici.
Impianti, sottolinea, che lasciano inutilizzato il 70% dell'energia termica prodotta.
Federico Valerio afferma comunque che tutti gli inceneritori a legna bruciano un combustibile povero ed inquinante.
Lo prendiamo in parola e andiamo oltre. Sosteniamo che sono inquinanti ed antieconomici anche i piccoli inceneritori sorti per produrre solo energia termica. Per intenderci, quelli sotto il Mw di cui Regione e Provincia stanno finanziando l'installazione in tutto l'Appennino. Tre impianti sono già funzionanti e cinque sono già stati finanziati. Nicola Dall'Olio, dipendente della Provincia e candidato alle primarie del Pd, ha firmato un documento che comproverebbe la larga disponibilità di legna utilizzabile dal punto di vista energetico, nonostante i massicci tagli dovuti alla speculazione sulla legna da ardere, arrivando ad affermare che di tali inceneritori a cippato se ne potrebbero installare, senza problemi, addirittura una trentina nei borghi del nostro Appennino.
Gli argomenti addotti per giustificare tale scelta sono ormai dei mantra, frasi fatte ripetute ad ogni piè sospinto e ritenute certezze intoccabili.
Sarebbe il caso, invece, di sottoporli a giudizio critico.
Il primo mantra è dato dalla certezza che la combustione delle biomasse non contribuisca all'effetto serra. Viene detto che la stessa CO2 assorbita durante la crescita viene restituita durante
la combustione. Cioè sarebbero impianti a somma zero di emissioni CO2.
In astratto è vero : la CO2 emessa è quella incorporata nel legno.
Ma non si considera il fattore tempo. In natura le piante hanno una vita di molte decine di anni e ne impiegano altrettanti, una volta morte, a seccarsi, marcire, diventare humus e rilasciare CO2.
Nel concreto dalla combustione di cippato di legna viene emessa anidride carbonica in quantità industriale che gli ettari di bosco, tagliati per fornirlo, impiegheranno anni prima di avere la massa arborea sufficiente a ricatturare la stessa quantità di CO2 di prima.
Il secondo mantra è dato dalla certezza che una centrale termica a cippato, fornendo teleriscaldamento in sostituzione delle vecchie caldaie a legna delle case, abbia emissioni meno nocive di queste e che l'aria dei borghi in inverno diventi addirittura più salubre.
Sbagliato. La gente ha già provveduto in questi ultimi anni a dotarsi di moderne caldaie funzionanti sia a pellet che a legna, con abbattimento dei fumi. La caldaia è programmata per accendersi automaticamente col pellet ed è poi rifornita manualmente di legna durante la giornata. Il pellet ha un contenuto idrico dell'8%. La legna usata è secca, stagionata due anni, ha un contenuto di umidità inferiore al 20% e produce basse emissioni, ulteriormente abbattute dal filtro della caldaia.
La centrale a biomassa, al contrario, brucia cippato fresco con umidità del 50-60%. Produce una cattiva combustione con eccessi di fumi e con residui di ceneri anche del 5%. Ma soprattutto supera ampiamente il range massimo di 100 mg/m3 di polveri previsto dalla normativa nazionale.
L'ingegner Saviano della SIRAM, la ditta costruttrice della centrale a cippato dentro l'ospedale di Borgotaro, ha dovuto inventarsi alchimista per dosare la quantità di calore della caldaia a metano con quella della caldaia a cippato in modo che questa avesse la minor quantità di emissioni e di ceneri possibile per un ospedale e ha dovuto approvvigionarsi di cippato di legna stagionata, per non dover servirsi di cippato fresco, così difficile da bruciare e così inquinante.
Il terzo mantra è dato dalla certezza del risparmio con la centrale a cippato.
Forse è vero rispetto al gasolio che si usava prima, ma non rispetto ad altre possibilità.
Il costo di una centrale come quella di Palanzano, con due caldaie da 350 Kw l'una, è di 426.000 euro e il costo di quella di Monchio, da 926 Kw, è di 650.000 euro. Il costo aggiuntivo della rete di teleriscaldamento è di 500 euro al metro. Monchio ha già speso 100.000 euro solo per una parte della rete di teleriscaldamento. Il comune di Palanzano, viste le conseguenze nel bruciare cippato fresco, grandi emissioni di fumi e grosse quantità di ceneri, è passato a bruciare pellet. Costa di più ma rende molto di più, ha emissioni e ceneri 10 volte inferiori al cippato fresco. Forti di questa esperienza avrebbero risparmiato molto di più mettendo caldaie a pellet in ognuno dei 5 fabbricati del comune, senza bisogno dei costi del teleriscaldamento. Una caldaia automatica a pellet da 60 Kw di potenza, capace di riscaldare una superficie di 800 m2, costa 36.000 euro(iva e installazione comprese), detraibili al 55% in 10 anni. Il costo reale diventerebbe di 16.000 euro.
Con neanche 100.000 euro avrebbero risolto il problema e avrebbero potuto destinare il resto dei finanziamenti regionali ad interventi di ristrutturazione per il risparmio energetico, creando così anche lavoro.
Il quarto mantra è che non si intacca il patrimonio forestale perché il cippato deriva solo dalla pulizia dei boschi. Falso. La pulizia dei boschi la si faceva una volta quando la legna era poca e la gente tanta. Ora non la fa più nessuno, tanto meno i boscaioli o le cooperative di taglio.
Il cippato fresco, anzi, deriva proprio dal taglio meccanizzato del bosco, dall'esbosco a pianta intera, con cui il tronco diventa tondame da lavoro e i rami e il cimale, una volta tagliati, vengono subito cippati con foglie e tutto il resto. Per un tale taglio meccanizzato è prevista anche l'apertura di nuove strade e quindi un'ulteriore rimaneggiamento del bosco ed una sua maggiore esposizione al taglio generalizzato già in atto per la speculazione sulla legna da ardere che ha già superato la sostenibilità e che sta intaccando la rinnovabilità.
Il quinto mantra è che l'investimento strutturale nel teleriscaldamento sia necessario nei piccoli borghi perché gli anziani non sono più in grado di essere autonomi nemmeno a casa loro. Risibile. Per chi non ce la fa ci sono le case di riposo attrezzate.
Sono necessari, invece, investimenti strutturali per creare lavoro, cosa che le centrali a cippato non fanno minimamente. Investimenti per la ristrutturazione dei borghi finalizzati al risparmio energetico ed alla ricezione agrituristica ed alberghiera, capaci di creare lavoro nell'edilizia e nell'indotto e a seguire nel turismo, ormai moribondo.
Ma nella nostra montagna, altrettanto grave dell'abbandono dei borghi e della mancanza di lavoro
è il taglio dei boschi causato dalla speculazione sulla legna da ardere. Le tonnellate di cippato che bruceranno nelle decine di future centrali termiche si andranno a sommare alle migliaia di tonnellate di legna che ogni anno vengono portate via su camion, con grave dissesto per i boschi, i versanti dei monti e le strade delle valli.
Su circa 300.000 tonnellate potenzialmente prelevabili dai boschi del nostro Appennino, stando ai dati delle comunità montane, nel 2009 ne sono state effettivamente tagliate 190.000, sotto la voce di autoconsumo. Ma questa parola magica, in borghi semi abbandonati, è ormai un eufemismo, valida quando le case erano tutte abitate, ma non certo ora che lo è una casa su quattro.
Tutta quella legna viene portata via dal nostro territorio e venduta a caro prezzo chissà dove.
Il prezzo di mercato della legna da ardere stagionata 3 mesi è di 11 euro al quintale, arriva anche a 18 euro se stagionata 2 anni.
Di quei soldi in montagna resta ben poco. Gli anziani dei borghi che fanno tagliare i loro boschi di proprietà incamerano solo 1.000 euro all'ettaro.
La gran parte dei soldi del taglio finisce però giù in città.
A coloro che vi si sono trasferiti da tempo e che hanno conservato la proprietà della casa e di appezzamenti boschivi. Certo, qualche boscaiolo in ogni borgo mette in tasca un po' di più, 4 o 5.000 euro per ogni ettaro tagliato, ma non si arricchisce di sicuro col sudore della sua fronte.
Né quel po' di euro in più che girano per i borghi ne cambiano l'assetto economico.
Ma soprattutto finiscono nelle tasche dei commercianti e grossisti della filiera del legno che non torneranno certo ad investirli lassù.
I dati degli ettari richiesti al taglio nel 2011 non sono ancora disponibili, ma non lo sono nemmeno quelli del 2010, nonostante siano stati richiesti per un anno intero. Tutti i boscaioli dicono che si sia tagliato molto di più, forse molto più del doppio e che sono nate delle aziende che hanno assunto in nero immigrati che tagliano a più non posso, pagati un tanto a m3.
A confermare l'enormità dei tagli e il mancato rispetto spesso delle regole minime sono le parole stesse del sindaco Bovis di Langhirano ad un'assemblea aperta del Pd sullo stato della montagna del settembre scorso: “Se dovessimo punire quest'anno chi ha sgarrato dalle regole dei tagli, dovremmo comminare ammende per alcune decine di migliaia di euro. Ma non so se sia il caso di farlo: alcune aziende fallirebbero”.
Ma se i tagli hanno ormai superato la sostenibilità e stanno intaccando la rinnovabilità dei nostri boschi, non si può più accettare che le autorità amministrative impongano il silenzio.
La risorsa verde dei boschi non è “il nuovo petrolio su cui siamo seduti”, come affermato da un funzionario della Provincia, ma una risorsa preziosa che va salvaguardata proprio nell'interesse della montagna, di chi vi abita e del suo futuro possibile.
Giuliano Serioli
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