sabato 30 novembre 2013

Il ministro Orlando in visita agli impianti Revet

Conoscere la filiera industriale toscana del riciclo


Tre fondamentali questioni per correggere il sistema di gestione del ciclo integrato dei rifiuti sono state portate all’attenzione del ministro dell’ambiente Andrea Orlando, nel corso della visita allo stabilimento Revet, insieme al presidente di Revet e Revet Recycling, Valerio Caramassi, al direttore e al presidente di Cispel Andrea Sbandati e Alfredo De Girolamo, al direttore Tecnologie dell’innovazione produzione di Piaggio Carlo Coppola, all’assessore regionale Vittorio Bugli e al presidente della provincia di Pisa Andrea Pieroni.
In particolare le visite hanno riguardato i due impianti che fanno della Toscana un modello unico e virtuoso.
L’impianto di selezione del multimateriale che consente a Revet di servire il 90% della popolazione toscana processando e preparando per il riciclo ogni anno 140mila tonnellate di materiali (plastiche, alluminio, acciaio, vetro e poliaccoppiati come il tetrapak).
L’impianto Revet Recycling per il riciclo e la granulazione delle plastiche eterogenee, la frazione delle raccolte differenziate più critica da gestire, che non avendo valore di mercato, altrove è destinata per lo più a recupero energetico: in Toscana invece diventa granulo che può sostituire la materia vergine e che può essere stampato in nuovi manufatti plastici anche di alta gamma, come nel caso dei particolari per automotive (ne sono un esempio i componenti degli scooter Mp3 della Piaggio).
«Ho accettato volentieri l’invito da parte di Cispel Confservizi Toscana – ha spiegato il ministro dell’Ambiente Andrea Orlando - perché intendo vedere di persona alcune delle principali eccellenze nel campo della Green Economy e delle imprese che stanno promuovendo obiettivi di politica ambientale, come è il caso di Revet e di Revet Recycling. Sono convinto infatti non solo che ambiente e sviluppo economico siano fra loro compatibili, ma che alcuni obiettivi di politica ambientale siano perseguibili soprattutto con strumenti economici ed incentivi ai settori industriali virtuosi».
Proprio il tema degli incentivi al riciclo di quelle materie che non hanno valore di mercato è stata una delle questioni affrontate nel corso della visita. «Immaginiamo un sistema perfettamente funzionante – ha spiegato Valerio Caramassi, presidente di Revet e Revet Recycling - sia sulla quantità che sulla qualità della raccolta. Ebbene va considerato che ciò che si raccoglie si divide in materiali che hanno un valore di mercato e in materiali che hanno un disvalore di mercato (come per esempio le plastiche eterogenee). Ecco il riciclo di tutti quei materiali che non hanno valore di mercato dovrebbe dunque essere promosso e incentivato dai consorzi di filiera (che per questo furono costituiti), così come è avvenuto per le energie rinnovabili».
Il secondo tema di cui si è discusso è stata l’urgenza di creare uno standard di misurazione delle raccolte differenziate, perché la mancanza di standard nazionali (in realtà previsti fin dal decreto Ronchi del 1997, ma mai attuati) consente ad ogni regione di stabilire in modo unilaterale parametri e metodi di calcolo delle raccolte differenziate, per cui la stessa percentuale ha in realtà valori reali che cambiano geograficamente.
Infine il presidente di Revet ha sottolineato al ministro la necessità di considerare in modo prioritario gli obiettivi di riciclo effettivo (così come stabilito dall’Ue): «Dal 2008 con la direttiva europea e dal 2010 con il suo recepimento – ha continuato Caramassi - anche il sistema italiano ha assunto obiettivi di riciclo, (ovvero il 50% di quello che viene raccolto). Per questo motivo il sistema Anci/Conai non può più essere focalizzato solo sulla raccolta differenziata e deve invece considerare la selezione e il riciclo effettivo. Allo stesso modo anche l’allocazione delle risorse deve essere in sintonia con questo obiettivo ridistribuendole equamente tra raccolta differenziata (che è lo strumento) e il riciclo (che è il fine)».

Dieci punti per il riciclo.

Il metabolismo economico è alimentato non solo da flussi di energia ma anche da flussi di materia. I flussi di materia non possono essere circoscritti al problema dei rifiuti (tantomeno urbani). Sarebbe come circoscrivere i flussi di energia al problema delle emissioni degli impianti di produzione elettrica.

Se si vuole definitivamente fare il salto di qualità dalla salvaguardia ambientale statica ad un ambientalismo moderno che assume la green economy come perno della sostenibilità, occorre governare tutti e due i corni del dilemma: energia e materia. Ciò significa politiche strategiche su risparmio, efficienza, rinnovabilità: di materia, esattamente come di energia.

Per la materia, esattamente come per l’energia, risparmio, efficienza e rinnovabilità sono prerogativa delle politiche industriali. Non è possibile affrontare il governo sostenibile dei flussi di materia a partire dalla “coda”, ovvero dai rifiuti. Tantomeno dalla “coda della coda”, ossia dai rifiuti urbani. Tantomeno dalla “coda della coda della coda”, ossia dagli imballaggi (solo per dirne una: la plastica immessa sul mercato annualmente ammonta a 6 milioni di tonnellate. Di questa “solo” 2 milioni sono imballaggi).

Risparmio ed efficienza di materia per unità di prodotto sono pratiche che da sempre la nostra industria è abituata a praticare. Ciò di cui siamo drammaticamente deficitari e altrettanto drammaticamente in ritardo (benchmark Germania) è una politica per la rinnovabilità della materia. Quella derivata dagli scarti di processo produttivo non reimpiegabili nello stesso processo industriale e quella derivata dagli scarti di prodotto (post-consumo). Questo tema (messo così) è stato posto dalla Ue con forza e in termini strategici: informatizzazione e finanziarizzazione rendono volatile (volatile, non sinusoidale) il prezzo delle materie prime e questo mette in difficoltà la nostra manifattura. Il riciclo, anche laddove ha un costo maggiore, non è sottoposto alla tirannia della finanziarizzazione.

Sugli scarti di processo non reimpiegabili nello stesso ciclo (si parla di decine di milioni di tonnellate), come su quelli post-consumo, occorre distinguere fra la materia che ha un valore di mercato e quella che ha un dis-valore di mercato. Ciò che ha un diretto valore, incrocia autonomamente il mercato e non costituisce problema. Ciò che non ha un diretto valore di mercato (B2B), ma ha un valore strategico-sistemico va sostenuto con politiche economiche e fiscali. Di nuovo il parallelismo con le energie rinnovabili aiuta: eolico e fotovoltaico (contraddizioni a parte) sarebbero decollate senza politiche ad hoc e incentivi?

Due esempi su scarti di processo e scarti di prodotto che non hanno un diretto valore di mercato. 1) Continuiamo a massacrare territori e paesaggi cavando materiale vergine che sarebbe perfettamente sostituibile da scarti di processo. (esempio: gli scarti delle acciaierie); 2) Continuiamo a ragionare di “plastica” (al singolare) e di “imballaggi”, ma le plastiche (plurale) immesse sul mercato nazionale ammontano a 6 milioni di ton/a e gli imballaggi a 2 milioni di ton/a. Se al posto del Conai avessimo un Conam (Consorzio nazionale materia), gran parte di quei 6 milioni sarebbero “rinnovabili” attraverso la loro reintroduzione nei cicli industriali.

Oltre ad una mirata politica industriale sulla rinnovabilità della materia, occorre adoperare (sia per gli scarti produttivi che per quelli post consumo) la stessa leva adoperata per la rinnovabilità dell’energia. Basterebbe azzerare (o ridurre drasticamente) l’IVA per rendere competitiva materia e prodotti derivati da riciclo di materia. Ogni motore ha bisogno di ‘carburante’ per funzionare. Così è stato per le rinnovabili elettriche, così non può non essere per la rinnovabilità della materia.

Abbiamo alle spalle oltre un decennio di esperienze. Impariamo almeno da quelle. Sull’energia abbiamo ottenuto risultati in “quel” modo. Sulla materia, oltre ad aver circoscritto il problema ai rifiuti (solo) urbani e (solo) agli imballaggi, ci si è illusi di far funzionare gli acquisti verdi con indicazioni e obblighi di legge (senza sanzioni, peraltro); accordi di programma, perorazioni e incitamenti di varia natura. L’obbligo del 30% (minimo) del GPP per le amministrazioni esiste almeno dal 2003 (dal 1998 in Toscana è del 40% e ci sarebbero pure sanzioni…), risultato: zero!

Il Ddl ambiente collegato alla Legge di Stabilità, ha almeno il merito di nominare, per la prima volta, il problema nella sua interezza. Ma siamo alle solite perorazioni senza individuare alcun “combustibile”. In sintesi: l’art. 12 (ma anche l’11) inquadra il problema, rimanda alle regioni il “combustibile” che sarebbe derivabile dall’ecotassa, che nel frattempo, complice lo spostamento degli obiettivi al 2020 (art.15), verrebbe a mancare di gettito. Insomma: un altro colpo “a vuoto”, mentre si inneggia al rilancio di un “nuovo manifatturiero sostenibile”.


Le scelte vincolanti, semplici e immediate, dovrebbero essere due. Una sul fronte della allocazione delle risorse già oggi disponibili senza alcuna aggiunta, e una sul fronte delle risorse dedicabili (incentivi). 1) Sulla allocazione delle risorse disponibili c’è solo da “inchiodare” ciò che già stabiliscono direttive, leggi e norme esistenti. Ovvero, se l’obiettivo è il 50% di riciclo (non la raccolta che è un mezzo), e se occorre privilegiare il riciclo prima del recupero energetico, allora le risorse disponibili da parte delle amministrazioni debbono essere allocate (almeno) per il 50% alla raccolta e per il 50% agli acquisti verdi, mentre i consorzi debbono corrispondere alle imprese che riciclano almeno (almeno) la stessa cifra euro/ton che spendono per il recupero energetico (incenerimento). Vanno parimenti stabilite sanzioni altrimenti non accadrà nulla. 2) Sugli incentivi la via più semplice sarebbe agire sull’IVA. Con l’IVA al 5% (max al 10) tutti i prodotti e/o manufatti realizzati con materiale riciclato diventerebbero immediatamente appetibili al consumatore, alle amministrazioni e alle imprese. Se, in subordine, si volesse rimanere, anche solo inizialmente, sull’utilizzo della ecotassa (riflessioni su condono a parte), allora o non si spostano gli obiettivi o si mantengono comunque le penali. In ogni caso occorre che il fondo sia obbligatorio e vincolato prevedendo sanzioni.

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