sabato 2 giugno 2012

Centrali a biomassa, una silente minaccia per l'appennino


I cittadini di Palanzano e Vaestano, organizzati in associazione ambientale, si oppongono fermamente alla costruzione di un gassificatore, a Nacca di Vaestano, che si alimenterebbe con 8.500 tonnellate annue di cippato di legna e con 2.500 tonnellate annue di digestato di letame.
Oltre le emissioni inquinanti e le ceneri, è anche il patrimonio boschivo che è a rischio.



Il cippato necessario all'impianto corrisponde ad 1 km² di bosco, che scomparirebbe per ogni anno di funzionamento.
Al sindaco di Palanzano, Giorgio Maggiali, che ha concesso la DIA senza tener conto della loro opinione, i cittadini hanno intimato di revocare l'autorizzazione, minacciando di rivolgersi al TAR.
Il sindaco di Monchio, comune finora considerato “virtuoso”, intende ricavare 150.000 euro di incentivi dalla produzione di energia elettrica, tramite la centrale a cippato già in funzione.
Attualmente questo impianto funziona al 20%, bruciando circa 3.000 quintali di cippato, con gravi problemi dovuti alla cattiva combustione. Funzionando in cogenerazione per produrre energia elettrica, arriverebbe a bruciare un volume dieci volte superiore.
Ma se non deve sorprendere che aziende private mirino a speculare sulle energie rinnovabili, pare incomprensibile che enti pubblici svendano risorse della montagna per quattro soldi.
Preoccupa anche il fatto che centrali termiche stiano sorgendo dappertutto nella nostra montagna, creando una situazione di assoluta minaccia per la risorsa bosco.
La convinzione che ci siamo fatta è che siano inquinanti ed antieconomici anche i piccoli inceneritori sorti per produrre energia termica: per intenderci, quelli sotto il Mw di cui Regione e Provincia stanno finanziando l'installazione in tutto l'Appennino.

Una vera e propria corsa all'incenerimento, quando l'Europa sta deliberando di andare esattamente dalla parte opposta, obbligando nel breve periodo a non bruciare ciò che è compostabile e riciclable.
Nel nostro appennino tre centrali a biomassa sono già funzionanti a Monchio, Palanzano e Borgotaro, altre cinque sono già state finanziate
Il funzionario della Provincia Nicola Dall'Olio - candidato alle primarie del Pd, nonché neo consigliere comunale di minoranza a Parma -, ha firmato uno studio che comproverebbe la larga disponibilità di legna da utilizzare in campo energetico.
Nonostante i massicci tagli dovuti alla speculazione sulla legna da ardere, si sostiene che di inceneritori a cippato se ne potrebbero installare una trentina, nei borghi del nostro Appennino.
Gli argomenti addotti per giustificare tale scelta sono ormai mantra da dare in pasto all'opinione pubblica poco e male informata.
Il primo mantra è la certezza che la combustione delle biomasse non contribuisca all'effetto serra, affermando che la CO2 assorbita durante la crescita venga restituita durante la combustione.
Cioè sarebbero impianti a somma zero di emissioni CO2.
Non si considera però il fattore tempo.
In natura le piante hanno una vita di molte decine di anni e ne impiegano altrettante, una volta morte, per seccare, marcire, trasformarsi in humus e rilasciare la CO2 accumulata.
Nella combustione invece l'anidride carbonica viene emessa in un sol colpo e gli ettari di bosco, tagliati per rifornirla, impiegano invece molti anni prima di avere la massa arborea sufficiente a ricatturare la stessa quantità di CO2 sprigionata.
Il secondo mantra recita che questi impianti, fornendo teleriscaldamento in sostituzione delle vecchie caldaie a legna, consentono emissioni meno nocive di quelle domestiche, e che l'aria dei borghi in inverno diventi addirittura più salubre. Fanno anche gli spiritosi.
In realtà le genti di montagna hanno già provveduto a dotarsi di moderne caldaie funzionanti sia a pellet che a legna, con sistemi di abbattimento dei fumi. La caldaia è programmata per accendersi automaticamente a pellet ed è poi rifornita manualmente di legna durante la giornata. Il pellet ha un contenuto idrico dell'8%, la legna utilizzata è secca, stagionata due anni, ha un contenuto di umidità inferiore al 20% e produce basse emissioni, ulteriormente abbattute dal filtro della caldaia. L'acquisto di nuove caldaie è conveniente perché è detraibile al 55% dalla dichiarazione dei redditi.
La centrale a biomassa, al contrario, brucia cippato fresco con umidità del 50-60%.
Produce una cattiva combustione con eccesso di fumi e con residui di ceneri anche del 5%.
Supera ampiamente il range massimo di 100 mg/Nm³ di polveri previsto dalla normativa nazionale. Infine, dalla combustione di sostanze vegetali ed animali (succede anche con il petrolio), si generano idrocarburi policiclici aromatici, che combinandosi col cloro presente nell'aria, emettono diossine.
L'ingegner Saviano della SIRAM, la ditta costruttrice della centrale a cippato dell'ospedale di Borgotaro, ha dovuto inventarsi alchimista. La caldaia a metano esistente è stata utilizzata per dosare la sua quantità di calore con quella della caldaia a cippato, per mantenerla sempre accesa e avere la minor quantità di emissioni e di ceneri possibile per un ospedale. Non solo, ha dovuto approvvigionarsi di cippato di legna stagionata, per abbandonare il cippato fresco, di così difficile combustione e forte inquinamento.
Vale la pena far notare che la Siram è controllata da Veolia, la multinazionale francese che costruisce e gestisce inceneritori in giro per il mondo. Sarà un caso?
Il terzo mantra è la certezza del risparmio, garantita dalle centrali a cippato.
Forse è vero rispetto al gasolio, ma se osserviamo le alternative l'affermazione svanisce.
Il costo di una centrale come quella di Palanzano, con due caldaie da 350 Kw l'una, è di 426.000 euro e il costo di quella di Monchio, da 926 Kw, è di 650.000 euro. Il costo aggiuntivo della rete di teleriscaldamento è di 500 euro al metro lineare. Monchio ha già speso 100.000 euro solo per una parte della rete di teleriscaldamento. Il comune di Palanzano, viste le conseguenze nel bruciare cippato fresco, è passato a bruciare pellet.
Forti di questa esperienza, avrebbero risparmiato molto di più se avessero messo piccole caldaie a pellet in ognuno dei 5 fabbricati del comune, senza bisogno dei costi del teleriscaldamento. Una caldaia automatica a pellet da 60 Kw di potenza, capace di riscaldare una superficie di 800 m², costa 36.000 euro, detraibili al 55% in 10 anni. Il costo reale diventerebbe di 16.000 euro.
Con neanche 100.000 euro avrebbero risolto il problema e avrebbero potuto destinare il resto dei finanziamenti  regionali ad interventi di ristrutturazione per il risparmio energetico, creando così anche lavoro. Bisogna confrontarsi sui numeri e solo su quelli vedere chi ha ragione.
Il quarto mantra è che non si intacca il patrimonio forestale perché il cippato deriverebbe solo dalla pulizia dei boschi. Un falso evidente.
La pulizia dei boschi era in uso quando la legna era poca e la gente tanta.
Ora non la fa più nessuno, tanto meno i boscaioli o le cooperative di taglio, che se dovessero raccogliere le ramaglie fallirebbero a causa dei costi della manodopera.
Il cippato fresco deriva in realtà dal taglio meccanizzato del bosco.
Dall'esbosco a pianta intera il tronco diventa tondame da lavoro e i rami e il cimale, una volta tagliati, vengono subito cippati con foglie e tutto il resto. Per questo taglio meccanizzato è prevista anche l'apertura di nuove strade. Si assisterebbe, quindi, ad un'ulteriore rimaneggiamento del bosco e ad una sua maggiore esposizione al taglio generalizzato in atto per la speculazione sulla legna da ardere, che ha già superato la sostenibilità e che sta intaccando la rinnovabilità.
Una cooperativa di pulizia del bosco, quindi, non pulirebbe un bel niente, taglierebbe soltanto.
Il quinto mantra è che l'investimento strutturale nel teleriscaldamento sia necessario nei piccoli borghi perché gli anziani non sono più in grado di essere autonomi nemmeno a casa loro.
Tutta da ridere. Lo vadano a raccontare a chi, a 80 anni, va ancora in giro a funghi.
Per chi non ce la fa, poi, ci sono già in ogni borgo le case di riposo attrezzate.
Quello che serve alla montagna sono investimenti strutturali per creare lavoro, cosa che le centrali a cippato non fanno minimamente. Investimenti per la ristrutturazione dei borghi finalizzata al risparmio energetico ed alla ricezione agrituristica, di seconda casa, di affitto, capaci di creare lavoro nell'edilizia e nell'indotto e a seguire nel turismo, ormai moribondo.
Ma nella nostra montagna, altrettanto grave dell'abbandono dei borghi e della mancanza di lavoro è il taglio dei boschi causato dalla speculazione sulla legna da ardere. Le tonnellate di cippato che bruceranno nelle decine di future centrali termiche si andranno a sommare alle migliaia di tonnellate di legna che ogni anno vengono portate via su camion, con grave dissesto per i boschi, i versanti dei monti e le strade delle valli.
Su circa 300.000 tonnellate potenzialmente prelevabili dai boschi del nostro appennino, stando ai dati delle comunità montane, nel 2009 ne sono state effettivamente tagliate 190.000, sotto la voce di autoconsumo.
Ma questa parola, in borghi semi abbandonati, è ormai un eufemismo.
Forse era valida quando le case erano tutte abitate, ma non certo ora che lo è una casa su quattro.
Tutta quella legna viene portata via dal nostro territorio e venduta a caro prezzo chissà dove.
Il prezzo di mercato della legna da ardere stagionata 3 mesi è di 11 euro al quintale, arriva anche a 18 euro se stagionata 2 anni.
Di quei soldi in montagna resta ben poco. Gli anziani dei borghi che fanno tagliare i loro boschi di proprietà incamerano solo 1.000 euro all'ettaro.
La gran parte dei soldi del taglio finisce giù in città, a coloro che vi si sono trasferiti da tempo e che hanno conservato la proprietà della casa e di appezzamenti boschivi.
Certo, qualche boscaiolo in ogni borgo mette in tasca un po' di più, 4 o 5.000 euro per ogni ettaro tagliato, ma col sudore della fronte non si arricchisce di sicuro.
Né quel po' di euro in più che girano per i borghi ne cambiano l'assetto economico.
I soldi veri finiscono nelle tasche dei commercianti e dei grossisti della filiera della legna da ardere.  Gente che non tornerà certo in montagna per investire.
I dati degli ettari richiesti al taglio nel 2011 non sono ancora disponibili, ma non lo sono nemmeno quelli del 2010, nonostante siano stati richiesti per un anno intero.
Tutti i boscaioli dicono che si è tagliato molto di più, forse molto più del doppio e che sono nate delle aziende che hanno assunto in nero operai che tagliano a più non posso, pagati un tanto a m³.
A confermare l'enormità dei tagli e il mancato rispetto spesso delle regole minime sono le parole stesse del sindaco di Langhirano Stefano Bovis, durante un'assemblea aperta del Pd sullo stato della montagna: “Se dovessimo punire quest'anno chi ha sgarrato dalle regole dei tagli, dovremmo comminare ammende per alcune decine di migliaia di euro. Ma non so se è il caso di farlo, alcune aziende fallirebbero”.
Ma se i tagli hanno ormai superato la sostenibilità e stanno intaccando la rinnovabilità dei nostri boschi, non si può più accettare che le autorità amministrative impongano il silenzio ai funzionari preposti.
La risorsa verde dei boschi non è “il nuovo petrolio su cui siamo seduti”, come affermato da un funzionario della Provincia, ma una risorsa preziosa che va salvaguardata proprio nell'interesse della montagna, di chi vi abita e del suo futuro possibile.

Giuliano Serioli

Rete Ambiente Parma
2 giugno 2012

www.reteambienteparma.org  -  info@reteambienteparma.org
comitato pro valparma - circolo valbaganza - comitato ecologicamente - comitato rubbiano per la vita -
comitato cave all’amianto no grazie - associazione gestione corretta rifiuti e risorse – no cava le predelle –
associazione per l'informazione ambientale a san secondo parmense


Nessun commento:

Posta un commento