Analisi choc dell'Asl su 300 lavoratori
e 113 cittadini
da Corriere della Sera on line
di Pietro Gorlani
Pcb da record nel sangue dei bresciani,
chi lavora in fonderia e ci vive vicino è più contaminato che nel
resto d'Italia.
Il sangue dei bresciani non è come
quello degli altri italiani. Nelle vene dei bresciani scorrono più
diossine e pcb, usciti negli ultimi decenni dai camini delle
industrie metallurgiche e finiti sui campi e quindi nei cibi.
Chi lavora nelle acciaierie della città
e dell'hinterland, chi vive vicino alle aziende incriminate ha più
veleni in corpo di chi ha la fortuna di risiedere sui monti della Val
Sabbia e nell'alto Garda, sebbene anche queste persone abbiano dosi
elevate di pcb (ma non di diossine).
A stabilirlo è uno studio del servizio
prevenzione dell'Asl di Brescia e dell'Istituto superiore di Sanità
(pubblicato recentemente sul Giornale italiano Medicina del lavoro ).
Contiene dati choc.
Basta leggere le conclusioni: «La
popolazione di Brescia, anche non residente nelle aree inquinate
dall'impresa Caffaro, si caratterizza per concentrazioni nel siero di
diossine e Pcb superiori ai valori osservati nelle popolazioni
italiane non esposte». Non solo. Anche in chi vive lontano da fonti
inquinanti (per l'esattezza a Tignale e Bagolino) «le concentrazioni
di diossine, furani e pcb sono apparse più elevate di quelle
osservate in alcuni gruppi di popolazione generale italiana»,
compreso chi vive nella Campania delle discariche tossiche e
dell'allarme rifiuti. Nel dettaglio: gli abitanti di alto Garda e
dell'alta Val Sabbia hanno concentrazioni di diossine nella norma
rispetto alla media italiana, ma non è così per i pcb.
La ricerca condotta dal dottor Pietro
Gino Barbieri (Asl Brescia), da Silvio Garattini (Iss) e da altri sei
medici-ricercatori (Pizzoni, Festa, Abbale, Marra, Iacovella,
Ingelido, Valentini, De Felip) era mirata a valutare l'esposizione
cumulativa a policlorodibenzodiossine (Pcdd), policlorodibenzofurani
(Pcdf) e policlorobifenili (Pcb) in lavoratori metallurgici e nella
popolazione generale della provincia di Brescia.
I ricercatori hanno analizzato il
sangue di 300 lavoratori metallurgici e di 20 impiegati negli uffici
amministravi. Identica procedura per 46 persone che vivono vicino
alle aziende che fondono rottami (ma che lavorano nel terziario) e
per altre 47 che vivono a chilometri di distanza (per l'appunto
Tignale e Bagolino). I risultati? «Per i lavoratori metallurgici si
osservano livelli ematici di pcb più elevati di quelli osservati
nella popolazione non professionalmente esposta, sebbene in modo non
statisticamente significativo, fatta eccezione per alcuni congeneri -
come i pcb 28, 52 e 101 - che risultano significativamente più
abbondanti». In sostanza, anche i residenti «vicini» alle aziende
hanno «livelli ematici di organoclorurati pressoché sovrapponibili
a quelli rilevati nei professionalmente esposti». Al contrario in
chi risiede lontano dalle fonti inquinanti «l'intervallo di valori
osservati è più basso».
I valori variano anche da azienda ad
azienda e da reparto a reparto; chi lavora in una fonderia di ghisa è
meno esposto dei colleghi che lavorano nella fonderia di alluminio o
in acciaieria. E gli addetti alle aree di fusione e manutenzione
risultano «sovraesposti» rispetto a chi lavora nelle aree di colata
e parco rottame.
Va precisato che tutti i soggetti
analizzati hanno un'età media di 43 anni e nessuno di loro ha
consumato cibi contenenti grassi (dove si accumulano diossine e pcb)
in quantità significativamente maggiore rispetto agli altri. Ecco
allora che risultano più chiare le conclusioni dello studio: «la
fusione dei metalli da rottami contaminati con materiali plastici può
contribuire al rilascio in ambiente di composti organoclorurati»,
diversi dei quali sono cancerogeni (è il caso delle
tetraclorodibenzodiossine). La stessa Unione Europea, ricordano i
medici, ha individuato nell'industria del ferro e dell'acciaio una
delle maggiori sorgenti di emissione di diossine e furani in Europa.
Brescia per decenni ha recuperato il 40% del rottame metallico
circolante in Italia, creando ricchezza, migliaia di posti di lavoro
e proporzionalmente una grande dose d'inquinamento, visto che fino a
pochi anni fa erano quasi inesistenti leggi e tecnologie per
l'abbattimento degli inquinanti.
Oggi non è più così. Basti pensare
all'autoregolamentazione che si sono date le 22 principali aziende
siderurgiche bresciane (riunite nel consorzio Ramet) che negli ultimi
2 anni hanno speso milioni per diminuire dell'80 per cento le
emissioni di diossine (auto-imponendosi il limite di 0,1 nanogrammi
per metrocubo) e installando anche un monitoraggio in continuo per
facilitare i controlli degli enti. Ma i fumi usciti nei decenni
passati hanno lasciato il segno. Lo certifica il sangue dei
bresciani.
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