martedì 22 gennaio 2013

Il sangue marziano dei bresciani


Analisi choc dell'Asl su 300 lavoratori e 113 cittadini

da Corriere della Sera on line

di Pietro Gorlani

Pcb da record nel sangue dei bresciani, chi lavora in fonderia e ci vive vicino è più contaminato che nel resto d'Italia.
Il sangue dei bresciani non è come quello degli altri italiani. Nelle vene dei bresciani scorrono più diossine e pcb, usciti negli ultimi decenni dai camini delle industrie metallurgiche e finiti sui campi e quindi nei cibi.
Chi lavora nelle acciaierie della città e dell'hinterland, chi vive vicino alle aziende incriminate ha più veleni in corpo di chi ha la fortuna di risiedere sui monti della Val Sabbia e nell'alto Garda, sebbene anche queste persone abbiano dosi elevate di pcb (ma non di diossine).



A stabilirlo è uno studio del servizio prevenzione dell'Asl di Brescia e dell'Istituto superiore di Sanità (pubblicato recentemente sul Giornale italiano Medicina del lavoro ).
Contiene dati choc.
Basta leggere le conclusioni: «La popolazione di Brescia, anche non residente nelle aree inquinate dall'impresa Caffaro, si caratterizza per concentrazioni nel siero di diossine e Pcb superiori ai valori osservati nelle popolazioni italiane non esposte». Non solo. Anche in chi vive lontano da fonti inquinanti (per l'esattezza a Tignale e Bagolino) «le concentrazioni di diossine, furani e pcb sono apparse più elevate di quelle osservate in alcuni gruppi di popolazione generale italiana», compreso chi vive nella Campania delle discariche tossiche e dell'allarme rifiuti. Nel dettaglio: gli abitanti di alto Garda e dell'alta Val Sabbia hanno concentrazioni di diossine nella norma rispetto alla media italiana, ma non è così per i pcb.
La ricerca condotta dal dottor Pietro Gino Barbieri (Asl Brescia), da Silvio Garattini (Iss) e da altri sei medici-ricercatori (Pizzoni, Festa, Abbale, Marra, Iacovella, Ingelido, Valentini, De Felip) era mirata a valutare l'esposizione cumulativa a policlorodibenzodiossine (Pcdd), policlorodibenzofurani (Pcdf) e policlorobifenili (Pcb) in lavoratori metallurgici e nella popolazione generale della provincia di Brescia.
I ricercatori hanno analizzato il sangue di 300 lavoratori metallurgici e di 20 impiegati negli uffici amministravi. Identica procedura per 46 persone che vivono vicino alle aziende che fondono rottami (ma che lavorano nel terziario) e per altre 47 che vivono a chilometri di distanza (per l'appunto Tignale e Bagolino). I risultati? «Per i lavoratori metallurgici si osservano livelli ematici di pcb più elevati di quelli osservati nella popolazione non professionalmente esposta, sebbene in modo non statisticamente significativo, fatta eccezione per alcuni congeneri - come i pcb 28, 52 e 101 - che risultano significativamente più abbondanti». In sostanza, anche i residenti «vicini» alle aziende hanno «livelli ematici di organoclorurati pressoché sovrapponibili a quelli rilevati nei professionalmente esposti». Al contrario in chi risiede lontano dalle fonti inquinanti «l'intervallo di valori osservati è più basso».
I valori variano anche da azienda ad azienda e da reparto a reparto; chi lavora in una fonderia di ghisa è meno esposto dei colleghi che lavorano nella fonderia di alluminio o in acciaieria. E gli addetti alle aree di fusione e manutenzione risultano «sovraesposti» rispetto a chi lavora nelle aree di colata e parco rottame.
Va precisato che tutti i soggetti analizzati hanno un'età media di 43 anni e nessuno di loro ha consumato cibi contenenti grassi (dove si accumulano diossine e pcb) in quantità significativamente maggiore rispetto agli altri. Ecco allora che risultano più chiare le conclusioni dello studio: «la fusione dei metalli da rottami contaminati con materiali plastici può contribuire al rilascio in ambiente di composti organoclorurati», diversi dei quali sono cancerogeni (è il caso delle tetraclorodibenzodiossine). La stessa Unione Europea, ricordano i medici, ha individuato nell'industria del ferro e dell'acciaio una delle maggiori sorgenti di emissione di diossine e furani in Europa. Brescia per decenni ha recuperato il 40% del rottame metallico circolante in Italia, creando ricchezza, migliaia di posti di lavoro e proporzionalmente una grande dose d'inquinamento, visto che fino a pochi anni fa erano quasi inesistenti leggi e tecnologie per l'abbattimento degli inquinanti.
Oggi non è più così. Basti pensare all'autoregolamentazione che si sono date le 22 principali aziende siderurgiche bresciane (riunite nel consorzio Ramet) che negli ultimi 2 anni hanno speso milioni per diminuire dell'80 per cento le emissioni di diossine (auto-imponendosi il limite di 0,1 nanogrammi per metrocubo) e installando anche un monitoraggio in continuo per facilitare i controlli degli enti. Ma i fumi usciti nei decenni passati hanno lasciato il segno. Lo certifica il sangue dei bresciani.

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