Ne abbiamo bisogno sempre di più. L’uomo moderno vive di energia, e per vivere meglio (dicono) deve averne sempre di più. Non è ben chiaro per farne cosa. Sicuramente per sprecarla riscaldando e raffreddando edifici mal costruiti e mal gestiti, nei quali pretendiamo di tenere in estate temperature da raffreddore, e poterci vivere in inverno con le maniche corte. O per illuminare uffici pubblici nelle ore serali quando gli impiegati se ne sono andati a casa da parecchie ore (vedi Direzionale Uffici Comunali di Parma).
Oppure per illuminare in maniera eccessiva e persino fastidiosa i negozi, seguendo il pensiero corrente di coloro che si occupano d’immagine, i cosiddetti Visual Merchandiser, secondo i quali un negozio, quanto più è illuminato, tanto più attira il cliente (anche di notte).
In dieci anni la quantità di luce richiesta all’interno di un punto vendita dall’arredatore è più che triplicata.
L’uso smisurato e dissennato di energia è forse simbolo di “potenza”, ma anche di stupidità.
Un viaggio in Qatar può chiarire molto bene alcuni assunti dell'uomo moderno (?): piste di pattinaggio su ghiaccio in località dove la temperatura oscilla tra i trenta e i cinquanta gradi, palazzi dove vengono condizionati anche i porticati aperti, alberghi con letti privi di lenzuola ma dotati di piumini d’oca per difendersi dalle rigide temperature del condizionamento forzato.
Per mantenere il nostro attuale stile di vita l’energia attualmente prodotta non è sufficiente, ci dicono.
E allora dobbiamo produrne altra, con ogni mezzo, sempre di più.
L’opzione nucleare, che pensavamo di aver superato, sia economicamente che culturalmente, torna prepotentemente alla ribalta e meriterebbe un lungo approfondito discorso.
Parleremo piuttosto in questa sede dell’energia prodotta localmente, secondo il principio, peraltro abbastanza condivisibile, dell’autonomia energetica di una città, una provincia, un territorio, che viene poi però utilizzato come testa di ponte dai signori del vapore, per fare i “loro” affari.
Era il 2003, si cominciava a parlare di liberalizzazione dell’energia, a Parma fu proposta da Amps una grande centrale turbogas ritenuta (assieme all’amministrazione comunale) assolutamente indispensabile. Si voleva assicurare l’autosufficienza energetica della nostra città.
Poco importava che il gas non fosse esattamente prelevato in loco ma provenisse dall’Algeria o dalle ex Repubbliche Sovietiche, l’importante era spacciare presunte necessità per vendere energia e fare business. Fortunatamente il progetto, anche in seguito alle battaglie di un forte movimento di cittadini, si arenò.
Venne poi il giorno in cui ci è stato fatto credere che i rifiuti potessero magicamente trasformarsi in energia, attraverso un processo semplicissimo: il cambiamento di una parola. L’inceneritore è diventato termovalorizzatore, nel momento in cui la tecnologia ha permesso di recuperare, con un rendimento peraltro risibile, una modestissima quantità di energia termica attraverso il teleriscaldamento e una certa quantità di energia elettrica.
Alle contestazioni tecniche, che riguardavano non solo l’incenerimento rifiuti, ma anche la scelta strategica del teleriscaldamento, nessuno ha mai risposto.
Creare una centrale termica, a chilometri di distanza dall’utilizzatore finale, è evidentemente uno scempio energetico.
In questo caso i fautori dell’incenerimento hanno unito due parole magiche: energia e rifiuti, definendole entrambe emergenze. Esiste un’emergenza rifiuti, ma questa è data in primo luogo dal fatto che produciamo troppe merci e che troppe merci diventano troppo rapidamente rifiuti.
Bruciare rifiuti è un altro scempio energetico, oltre che sanitario.
Recuperare e riutilizzare i prodotti o gli imballaggi e, quando diventano inutilizzabili, avviarli a riciclo, è una pratica che dal punto di vista energetico è estremamente più virtuosa che bruciarli in un grande forno, recuperando un po’ di fumo caldo.
Perché allora si costruiscono gli inceneritori?
Per fare soldi. Anche l’incenerimento infatti, è da quasi vent’anni un business per chi lo gestisce, grazie alle sovvenzioni che ognuno di noi paga all’industria dell’incenerimento attraverso i Cip 6, una maggiorazione del 7% sul costo dell’energia elettrica, a favore di chi la produce con l’incenerimento dei rifiuti.
Stiamo solo parlando del fallimento in termini energetici ed economici dell’incenerimento. La questione sanitaria è molto più importante, dirimente, e basterebbe da sola per cancellare questa pratica.
Diventa difficile convincere della nocività, dell’antieconomicità, dell’insostenibilità dell’incenerimento, chi su questo fa affari, ma dobbiamo riuscire a scardinare in noi tutti, e nella classe politica cui abbiamo delegato la gestione della cosa pubblica in particolare, alcuni luoghi comuni duri a morire.
Primo fra tutti l’ineluttabilità del fatto che i rifiuti siano il male necessario, l’effetto collaterale di una società del benessere. La strategia “rifiuti zero” ha introdotto alcuni concetti, che dovrebbero entrare a far parte del patrimonio comune di ogni singolo individuo che calpesta il globo terrestre, a maggior ragione di quelli che vivono nelle società opulente.
Uno di questi concetti è che il rifiuto non esiste. Esiste un materiale post utilizzo, che è stato usato ma non per questo diventa rifiuto. Una bottiglia di plastica è considerato un prodotto nel momento in cui contiene un liquido su uno scaffale, ma diventa un rifiuto appena viene svuotata; il pianeta non può reggere pratiche di questo genere. Non possiamo dare alle cose una vita così corta, solo perché il loro costo di fabbricazione è basso.
I nodi mai risolti di crescita sregolata e ultra consumistica, e di ricerca del business, stanno venendo al pettine sotto forma di inquinamento di terra, aria, acqua, depauperamento di risorse, sconvolgimenti climatici.
Dopo decenni nei quali gli ambientalisti venivano chiamati spregevolmente Cassandre, oggi diventa difficile continuare a negare ciò che è sotto gli occhi di tutti, la rovina dell’ambiente.
Ecco allora che, giusto per non farsi mancare niente, molte aziende si sono date una colorata di verde prato e si ripropongono in una nuova veste di “sostenibilità”. Qualcuno la chiama green washing.
Anche in campo energetico, ovviamente. E’ tutto un fiorire di aziende che promettono energia ad impatto zero, con fonti rinnovabili non impattanti sull’ambiente. Se fosse vero metà di quello che dicono dovremmo avere tutte le nostre case ricoperte di pannelli fotovoltaici.
In realtà anche qui spesso non è tutto oro quello che luccica. E’ il caso degli impianti a biomasse, anche questi guarda caso incentivati tramite i certificati verdi, nati forse con buone intenzioni ma trasformati immediatamente in affari personali.
Bruciare biomassa, che il più delle volte vuol dire pregiato legno, sembra una pratica sostenibile ma non lo è. O meglio, non lo è nella misura in cui si progetta (è il caso di alcuni paesi del nostro Appennino) di coltivare boschi per la centrale termica o, peggio, importare legna da paesi stranieri.
Così come non ha senso coltivare colza o mais per produrre carburanti, togliendo colture che potrebbero essere destinate all’alimentazione umana, ancora una volta in nome del business. Questi impianti possono avere una valenza positiva solo se riescono a risolvere in modo virtuoso la gestione dei residui delle produzioni. L’uso di legna da ardere per produrre calore per usi domestici e industriali è da considerarsi sostenibile solo se i pellet o il cippato non derivano direttamente da legna vergine prodotta dal taglio dei boschi, ma da scarti di lavorazione di biomasse primarie: segherie, falegnamerie, lavorazioni di prodotti agricoli con scarti (olive, nocciole), e solo nel raggio di pochi chilometri dall’impianto.
Gli incentivi rappresentati dai certificati verdi hanno purtroppo dato il via al proliferare di proposte di centrali a biomasse che non avrebbero senso di esistere (analogamente agli inceneritori), se non fossero sovvenzionate dalla collettività.
Sorge spontanea la domanda: dove sono finiti tutti i sostenitori del libero mercato?
Di un caso clamoroso se ne occupò la trasmissione di Rai 3 Report un anno e mezzo fa: un grande allevatore di polli impiantò nella sua azienda una centrale che produceva elettricità bruciando pollina (deiezione dei polli), che come si può immaginare è un combustibile praticamente privo di potere calorifico, quindi scarso dal punto di vista energetico, ma efficace per ottenere incentivi statali. Il risultato finale era che l’allevatore guadagnava molto di più dalla cacca dei suoi polli che dalle carni del pollo stesso.
L’energia, prima di essere un servizio ai cittadini, è un business per chi la produce e la distribuisce. Sarà banale ma è bene tenerlo a mente.
Tocca a noi e alla nostra classe dirigente rompere questo assioma, cambiare lo stato esistente delle cose..
La politica deve cominciare a fare gli interessi del popolo che l’ha eletta, e noi dobbiamo prendere in mano la nostra vita e autodeterminarci nelle scelte quotidiane in tema di rifiuti, consumi, energia, rigettando le scelte imposte da altri, soprattutto se costoro ne ricevono un guadagno eccessivo.
Quando avremo installato il nostro pannello fotovoltaico sarà più difficile per loro gestire il sole al posto nostro.
Associazione Gestione Corretta Rifiuti e Risorse di Parma - GCR
Parma, 27 dicembre 2010
-496 giorni all'avvio dell'inceneritore di Parma, ORA lo possiamo fermare.
+210 giorni dalla richiesta a Iren del Piano Economico Finanziario del Pai, forse perché l'inceneritore costa 315 milioni di euro?
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