Da una ventina di anni in
qua sta emergendo un post-ecologismo "di base" non
ideologico che opera nella dimensione del monitoraggio ambientale e
della stessa gestione sostenibile e partecipata delle risorse
di Michele Corti
http://www.ruralpini.it/Commenti-01.12.12-Post-ecologismo.htm
Questo contributo nasce
dall'interno dell'esperienza del movimento contro le biomasse
utilizzate indiscriminatamente a fini energetici e si propone di
esaminare come in Italia e nel mondo l'iniziativa ecologista grass
roots (termine inglese non facilmente traducibile ma che rimanda a
concetti quali "spontaneo", "di base", radicato
nella società, nella comunità, nella località) non si limiti al
opporsi ad autostrade, centrali energetiche, dighe, cementificazioni
ma si esprima anche in iniziative partecipate finalizzate alla
gestione delle risorse.
La dimensione oppositiva
della protesta "post-ambientalista" e quella propositiva
non sono affatto disgiunte ma possono comunque trovare una comune
prospettiva al di là di quanto è interesse dei poteri politici ed
economici far credere mediante la stigmatizzazione delle proteste
quali espressione della "sindrome NIMBY"
Due approcci all'ambiente
Ci sono due approcci alla
difesa dell'ambiente. Il primo è concreto: aria che si respira,
acqua che si beve, cibo che si mangia, terra che deve produrre pane
in futuro, boschi che possono essere coltivati. Ovvero qualcosa non
disgiunto da una dimensione sociale, da un "qui" e da un
"noi" , da una una gestione sostenibile e oculata delle
risorse locali per creare occupazione e reddito in circuiti locali
(e non per estrarre energia e risorse da sfruttare per esportare
altrove).
Poi c'è quello astratto del
quale le organizzazioni ambientaliste si sono arrogate, con la
benedizione dello stato, la rappresentanza; tanto astratto da
consentire loro di passare dagli spegiudicati accordi con le grandi
imprese capitalistiche alla gestione in prima persona
dell'ecobusiness (il tutto in nome della "modernizzazione
ecologica" (vedi articolo su Ruralpini) per ritornare
(regredendo al conservazionismo idealistico di fine XIX secolo) alla
difesa simbolica e riparatoria di singole specie animali al di fuori
del contesto ecosociale.
A fianco (e spesso in aperto
contrasto) con questo ambientalismo largamente professionalizzato,
istituzionalizzato, fortemente gerarchico e tecnocratico, inserito
nell'apparato di comando e controllo dello stato e del potere
economico, è cresciuto nel mondo un nuovo ecologismo che non è più
nemmeno quello degli "alternativi" o di minoranze
pittoresche. Si tratta di un nuovo (o se si vuole "post")
ecologismo che vive in alleanze e reti locali a loro volta collegate
con reti più ampie. È un ecologismo "community supported"
ovvero sostenuta dalla risorse della comunità, del volontariato,
dell'expertise locale) che si impegna nel capillare monitoraggio
della qualità dell'ambiente (acque, aria, suolo, salute) ma anche
nella gestione delle risorse naturali nei suoi aspetti regolativi ed
economici. Che opera nel contesto di meccanismi di deliberazione
partecipata, aperti a tutti, che vanno oltre gli strumenti della
consultazione, del sondaggio, della partecipazione di Ong a forum e
"tavoli" quali quelli calati dall'alto dlel'Agenda 21
locale. Strumenti spesso di facciata o che selezionano l'accesso dei
soggetti con maggiore disponibilità di tempo, competenze, denaro. Di
questi sviluppi del movimento ecologista parleremo nella seconda
parte di questo articolo.
Deficit di partecipazione,
protesta, natura del movimento ambientalista
Qui parleremo di quelle
forme di iniziativa ambientalista locale, molto diffuse anche in
Italia, che vengono spesso rubricate alla "sindrome NIMBY"
non volendo (e si capisce bene perché) cogliere la loro valenza
propositiva.
Il legame tra queste forme
di "nuovo" ecologismo e le aspirazioni ad una democrazia
partecipata è molto stretto e ragionare su questo nesso appare di
particolare importanza e attualità in Italia dove la cultura della
partecipazione è qualcosa di "esotico" rispetto alla
tradizione politica. Quest'ultima è basata su una fortissima
centralizzazione statale, sull'impari rapporto di forze tra la
burocrazia e il cittadino-suddito (non scalfito se non in superficie
da una serie di riforme).
Questa impermeabilità della
politica e del decision making alla "società civile" e ai
cittadini organizzati (al di fuori di aggregazioni istituzionalizzate
centralizzate) è stata acuita dalla presenza egemonica in ogni sfera
sociale di organizzazioni di massa a forte componente ideologica che
- sia pure in crisi - continuano ad influenzare il processo politico
e hanno condizionato la natura del movimento ambientalista (basti
pensare al persistente ruolo di "cinghia di trasmissione"
di Legambiente rispetto a quello che in molti continuano a definite
"il partito"). Questi condizionamento hanno fatto si che
proteste locali in tema di ambiente e ambientalismo organizzato in
Italia abbiano molto spesso viaggiato su binari paralleli quando non
si sia registrata una palese insofferenza delle associazioni
mazionali per il "movimentismo locale".
Un processo di
istituzionalizzazione che in Italia è stato precoce e più marcato
Inutile ricordare che
Legambiente (anche se non con questo nome) non nasce come movimento
spontaneo ma all'interno di una vecchia "organizzazione di
massa" (l'ARCI) con il duplice scopo di adeguare ai nuovi tempi
la base e quadri di un PCI largamente refrattario alle nuove idee
ambientaliste e di affermare anche nell'ambito della cultura
ambientalista l'egemonia gramsciana. Se è vero che in tutti i paesi
dove si erano sviluppati i movimenti ecologisti hanno subito un forte
processo di istituzionalizzazione perdendo in buona parte la carica
radicale politica e morale originaria, e accondiscendendo volontieri
al compromesso con i governi e le grandi imprese, va anche
sottolineato che in Italia il main stream dell'ambientalismo non ha
mai mostrato un'anima movimentista e di protesta, privilegiando sin
dall'inizio le forme di pressione sui politici, il ruolo nei tanti
organismi consultivi a carattere centrale e locale dove sono ammesse
solo le "associazioni riconosciute maggiormente rappresentative
a livello nazionale" occupando spazi all'interno di "istituzioni
verdi" quali i Parchi i Centri di educazione ambientale ecc.,
partecipando a tavoli e gruppi di lavoro con le industrie e le
amministrazioni . Rispetto alla mobilitazione di piazza, alla
contestazione l'ambientalismo ha privelegiato l'opportunità offerta
dal sistema di adire nelle aule giudiziarie e nelle sedi consultive.
Ha poi sviluppato iniziative editoriali, educative, divulgative,
attività di certificazione e attribuzione di "bollini" e
"bandiere" (un campo dove si è specializzata Legambiente
lasciando al WWF la gestione delle oasi e alcune campagne
specializzate). Una linea molto soft in grado si sfruttare le
"entrature" con le amministrazioni locali e ministeriali e
di ricercare convergenze con le industrie.
Per esercitare queste forme
a cavallo tra la lobby di utilità pubblica e l'agenzia di
ecobusiness è bastato dotarsi di una struttura centralizzata
professionale (Legambiente, WWF) dove l'èlite che gestisce le
organizzazioni coopta, per affinità politico-ideologica, elementi
dotati di competenze scientifico-tecniche e, al tempo stesso
manageriali. Un esempio emblematico di funzionaria "apparatnich"
di questo tipo - per di più con doppie cariche PD e Legambiente -
l'ho conosciuto lo scorso anno a Galliera nel Bolognese nel corso di
un infuocata assemblea contro la realizzazione di una centrale a
biogas (1). L'apparato relativamente ridotto (sedi di Roma e Milano)
non deve però ingannare sulla reale dimensione delle strutture delle
organizzazioni ambientaliste che si estende ad associazioni e società
di consulenza "satelliti" in grado di garantire il
mantenimento di una più larga cerchia di personale più o meno
professionalizzato e a tempo pieno.
Organizzazioni gerarchiche
Un po' diverso è il caso di
associazioni fortemente professionalizzate e marcatamente elitarie
quali Mountain wilderness e Greenpeace che, quantomeno, non si sono
mai atteggiate a "movimento" o degli "Amici della
terra" che hanno optato per una struttura leggera facendo valere
la capacità di influenza personale dei loro esponenti.
La "base"
all'interno delle grandi organizzazioni ambientaliste rappresenta
poco più che una giustificazione. Il dissenso degli organismi di
base rispetto alle scelte palesemente a favore del business (vedi il
caso delle energie rinnovabili ma anche verso accordi con grandi
imprese sicuramente con ecofriendly) è messo rapidamente a tacere in
forza di una struttura gerarchica. La "base" ha la
possibilità di partecipare a rappresentazioni di una partecipazione
passiva nel corso di eventi come "Puliamo il mondo"".
Muniti di cappellini gialli, pettorine e ramazze i "militanti"
di questo ambientalismo ma più che altro i ragazzini delle scuole
che - messi in divisa - fanno promozione al brand Legambiente in una
strategia scoperta di marketing e fidelizzazione (unico neo anche la
Coldiretti usa il giallo e tecniche analoghe). In questa
organizzazione fortemente incorporata nell'apparato di comando e
controllo politico-istituzionale è difficile parlare di militanza e
di partecipazione. In queste organizzazioni l'impulso all'attività
procede in modo del tutto unidirezionale: dall'alto verso il basso
(bottom up). "[lo staff nazionale] gestisce molte attività,
spesso imposte a sedi locali, dotate di pochi soci attivi"
(Pelizzoni e Osti, 2003, p. 141). "Molte attività" che
hanno anche lo scopo (al di là dei risvolti economici) di tenere
occupati i circoli locali (non si sa mai che volessero impegnarsi in
qualche iniziativa o protesta contraria alle direttive del vertice).
Prima di passare oltre
vorremmo chiarire quella che è l'obiezione che viene normalmente
sollevata contro le "critiche moralistiche"
all'istituzionalizzazione. Essa si basa sulla necessità di dotare un
movimento, cessata la spinta entusiastica iniziale, di strutture
permanenti al fine di evitare di disperderne il patrimonio, sulla
constatazione che governi e multinazionali si sono "fatti più
sensibili" ai problemi dell'ambiente se non altro perché si
rendono conto dei danni economici che anch'essi ricevono dal degrado
ambientale, ma poi anche perché si sono resi conto delle opportunità
dell'ecobusiness in termini di nuovi mercati, prodotti, tecnologie.
Sarebbe assurdo rifiutare di portare competenze, valori
sollecitazioni a chi si dimostra così bene intenzionato. L'altra
giustificazione alla messa in soffitta del movimentismo consisterebbe
nella non utilità degli strumenti della protesta a fronte
dell'esistenza di Ministeri dell'ambiente, Agenzie per l'ambiente,
legislazioni e "tavoli" di ogni tipo che non possono essere
considerati controparti ma interlocutori nel mentre una gererale
diffusione di "coscienza ambientale" rende meno acuti i
problemi e offre opportunità alla collaborazione. Un quadro
idilliaco che è però messo in discussione dall'evidenza che gli
interessi finanziari e industriali guardano all'ecobusiness in modo
rapace non rinunciando a grandi opere costose e impattanti,
insistendo su soluzioni del problema di gestione dei rifiuti e di
produzione energetica che premiano il profitto incuranti della salute
e dell'ambiente (come dimostra la corsa alle combustioni - drogata
dai contributi per la produzione di energia elettrica- che scoraggia
il riciclo e il riutilizzo della materia). Sono diminuite le
aggressioni al territorio? No di certo. Non ci sono più motivi di
mobilitazione e protesta? No di certo? Così la protesta si incanala
al di fuori dell'alveo istituzionalizzato.
Pompieri della protesta
Le organizzazioni
ambientaliste si pongono spesso nel ruolo di "pompieri"
delle proteste locali fino ad assumersi, per conto degli interessi
economici e politici promotori di interventi fortemente impattanti e
insostenibili, il compito di delegittimare le iniziative spontanee.
Da questo punto di vista le organizzazioni ambientaliste:
"non hanno una linea
univoca verso le proteste locali: in alcuni casi sono al fianco del
comitato di turno, in altri sono piuttosto fredde rispetto a
manifestazioni di ostilità che considerano irrazionali e
particolaristiche" (Pelizzoni e Osti, 2003, ivi)
Le motivazioni che spiegano
atteggiamenti diversificati rispetto a proteste spontanee di uguale
segno si possono spiegare facilmente con due criteri: 1) il colore
politico delle amministrazioni, multiutility, gruppi imprenditoriali
o cooperativi verso i quali si indirizzano le proteste; 2) il
coinvolgimento dei circoli locali nella protesta (anche se, come già
rilevato, Legambiente non esita a scomunicare i circoli troppo attivi
nelle proteste, specie se dirette contro soggetti "amici").
NIMBY: una stigmatizzazione
strumentale e senza fondamento
Per "pompierare" o
denigrare apertamente i comitati locali di protesta esiste una
parolina magica: NIMBY. NIMBY è un concetto tanto indefinito quanto
evocativo e di larga presa popolare.
L'associazione europea
dell'energia eolica arriva a sostenere che il principale ostacolo
alla diffusione dell'energia eolica è rappresentata dalla
"opposizione della gente del posto (nimby)" (EWEA, 2009).
Ma è proprio vero che NIMBY significa egoismo, localismo gretto e
difensivo? È proprio vero che l'iniziativa locale è capace solo di
"dire di no", di muoversi sul piano oppositivo, senza
proporre soluzioni alternative, senza tentare di essere propositiva?
Va innanzitutto precisato che il tanto chiamato in causa "effetto
NIMBY" inteso come opposizione a qualsiasi turbativa "in my
backyard" ovvero sulla mia soglia di casa (con il corollario del
"fatto da un'altra parte mi va bene" molto spesso si
dimostra del tutto inadeguato a spiegare l'opposizione alla
installazione di impianti di energie rinnovabili. Nel caso delle pale
eoliche in Olanda si è visto che il grado di opposizione non è per
nulla correlato alla distanza tra il luogo di residenza e le pale
(Wolsink, 2006). In una successiva pubblicazione (Wolsink, 2010)
rianalizzando le motivazioni dell'opposizione all'energia eolica
arriva a concludere che la "sindrome NIMBY" è un mito.
Nonostante diverse ricerche sul campo abbiano smentito l'ipotesi
NIMBY gli appelli (Burningham, 2000 Wolsink, 2006) a non utilizzare
in ambito accademico il termine sono rimasti largamente inascoltati.
Ciò nonostante che sia stato messo chiaramente in evidenza come esso
appaia di parte essendo utilizzato dai proponenti degli impianti e
rifiutato dagli oppositori (Wolsink, 1994; Burningham, 2000; Upreti,
2004). Burningham (2000) si è espresso in modo molto netto: "Il
termine NIMBY è spesso usato da chi propone la realizzazione degli
impianti come un modo sbrigativo per screditare chi si oppone ai
progetti"
Il fatto poi che si
utilizzino ulteriori qualificazioni come "NIMBY egoistico"
per distinguerlo da iniziative "NIMBY" a forte matrice
oppositiva ma chiaramente collettiva e su obiettivi che non possono
essere ricondotti ad una gretta chiusura particolaristica, conferma
che la valutazione dei movimenti di protesta locale deve essere
riconsiderata. Luigi Bobbio (Bobbio, 2011) esaminando alcuni casi di
proteste contro grandi opere (TAV e altro) scrive che:
"Le narrazioni che ho
esaminato ci permettono anche di capire che in tali conflitti
l’oggetto del contendere è tutt’altro che univoco. Appena ci
sembra di aver compreso che la contesa verte su un certo aspetto, ne
compare immediatamente un altro, e poi un altro ancora. Più partite
si giocano in uno stesso conflitto. Esse riguardano – spesso
simultaneamente – la natura dell’interesse generale o
particolare, l’esistenza di interessi occulti, la ridefinizione dei
costi e dei benefici, la valutazione del rischio, il potere
decisionale delle comunità coinvolte e la loro identità, la
possibilità di percorrere vie alternative allo sviluppo".
Mentre i media continuano a
veicolare la protesta "NIMBY" come retrograda, egoistica,
particolaristica si fa così strada l'interpretazione che vede gli
oppositori locali come assertori di un nuovo modello di sviluppo
("decrescita felice") collocandosi “oltre il Nimby”
(Fedi e Mannarini, 2008). Più realisticamente nelle proteste locali
convivono varie pulsioni e il confine tra difesa particolaristica e
asserzione di nuovi valori sociali, ecologici non è netto. Specie se
si considera che alla base delle proteste vi sono spesso motivazioni
che si fondano su condizioni di svantaggio territoriale (in alcuni
casi per la presenza di altri impianti energetici e infrastrutture),
l'inaccettabile sproporzione tra vantaggi privati e costi sociali e
territoriali, il rigetto delle manipolazioni tendenti a promuovere
una non verificata necessità e sostenibilità globale e locale delle
opere proposte. Non meraviglia che ci siano movimenti e associazioni
che si auto-attribuiscano orgogliosamente l'appellativo di NIMBY, non
solo negli Usa ma anche in Italia. Un caso esemplare è rappresentato
da Nimby Trentino, un'associazione indipendente da ogni partito,
gruppo o associazione ambientalista che è riuscita da sola (con gli
ambientalisti "ufficiali" che stavano a guardare o che
remavano contro) a stoppare l'inceneritore di Trento a Ischia Podetti
(2).
Il ruolo ambiguo
dell'ambientalismo istituzionale
La stigmatizzazione
associata all'etichetta NIMBY pesa sugli atteggiamenti di chi si
oppone (o vorrebbe) opporsi agli impianti eolici o a biomasse. Van
der Horst (2007) ha osservato che nelle indagini sul campo relative
all'opposizione locale ha osservato come "gli intervistati
cercano deliberatamente di non essere etichettati come NIMBY citando
altre 'legittime' ragioni di opposizione alla realizzazione di un
impianto in ambito locale". La paura di essere considerati NIMBY
e di opporsi ad una scelta presentata non solo come necessaria ma
etica induce gli oppositori degli impianti ad atteggiamenti
difensivi, riduce il consenso per le proteste, li fa "sentire in
colpa". Un risultato ottenuto grazie alle campagne sulle
conseguenze dell'effetto serra, l'importanza del protocollo di Kyoto,
la necessità e la bontà della scelta delle energie cosiddette
rinnovabili in cui le organizzazioni ambientaliste istituzionalizzate
hanno svolto un ruolo di primo piano. Non meraviglia che in Germania,
dove la preoccupazione per l'effetto serra, è superiore ad ogni
altro paese (Brechin, 2003) il consenso per l'uso energetico delle
biomasse raggiunga l'85% (Zoellner et al. 2008). Peccato che a questo
consenso siano associate delle pie menzogne, ovvero che le energie
rinnovabili comportano più posti di lavoro e, alla lunga, energia
più a buon mercato.
Basta leggere le cronache
del movimento in atto in Italia contro l'uso indiscriminato
dell'energia da biomasse per constatare come anche da noi le società
proponenti la realizzazione delle centrali, politici, giornalisti,
ecologisti "istituzionali" evochino ad ogni piè sospinto
il rischio del NIMBY (da qualche tempo a questa parte "rinforzato"
con lo spettro del NO TAV). Quello che è interessante è che
Legambiente & C. non si limitano a screditare i movimenti
spontanei, a fare i pompieri delle proteste, ma, con un salto di
qualità notevole, abbiano non solo sposato la tesi: "proteste
locali = NIMBY" ma anche assunto un ruolo "di polizia"
attraverso un progetto di "monitoraggio" delle proteste.
NIMBY FORUM. Legambiente
partecipa al "monitoraggio" delle proteste
Cos'è NIMBY FORUM (marchio
registrato)? Uno dei tanti progetti in cui l'ambientalismo
istituzionalizzato opera con gli organi dello stato e con le grandi
imprese ma anche qualcosa che attiene da vicino al tema che stiamo
affrontando. Dal sito (http://www.nimbyforum.it/home) apprendiamo
che:
Nimby Forum è un progetto
di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali
gestito dall'associazione no profit Aris - Agenzia di Ricerche
Informazione e Società. Nato nel 2004 con l'obiettivo di analizzare
l'andamento della sindrome NIMBY (Not In My Back Yard), Nimby Forum
costituisce oggi il primo e unico database nazionale delle opere di
pubblica utilità che subiscono contestazioni e si è accreditato
come importante think tank sul tema.
Il progetto è patrocinato
dal Governo italiano e da Legambiente. Nel comitato scientifico del
progetto Nimby Forum siede il presidente di Legambiente (in compagnia
del ministro Clini, di vari grand commis dell'apparato statale e di
... Rosa Filippini del "Amici della Terra". Quanto a Aris
dal sito non si evince nulla al di fuori del fatto che è impegnata,
oltre che nel Nimby Forum anche in altri due progetti "Festival
dell'energia" e "L'energia spiegata". Nulla si dice
circa chi compone l'associazione (qualche curiosità l'avremmo in
proposito...) e di chi la sostiene salvo che: l'associazione
"sviluppa le proprie attività grazie al contributo di singoli
individui e al sostegno di istituzioni e imprese che credono negli
obiettivi dell’Associazione e nei valori che essa promuove".
I dati emersi nel corso
delle diverse edizioni di Nimby Forum hanno delineato il ritratto di
un Paese bloccato a causa del continuo aumento dei fenomeni di
opposizione alla costruzione di opere e infrastrutture: la ricerca ha
evidenziato la crescita costante del numero degli impianti censiti
(283 nel 2009). Ogni tipologia di opera è avvertita dai territori
come una potenziale minaccia alla salute e all’ambiente, che si
tratti di discariche o impianti a fonti rinnovabili e
indipendentemente dal fatto che si parli solo di ipotesi di progetti
o di impianti già in funzione.
Uno dei "prodotti"
di NIMBY FORUM è la mappa della protesta (in home page). Qualcuno
potrebbe pensare che più che volontà di dialogo questo
"monitoraggio" potrebbe essere motivato da volontà di
controllo della protesta. Un po' poliziesco ad essere maliziosi.
(fine della prima parte,
prosegue)
Note:
(1) Ecco come avevo
descritta Claudia Castaldini: due lauree (fisica e astronomia) e
doppie cariche (nel Pd, responsabile provinciale ambiente nonché
membro dell'esecutivo del partito, in Legambiente responsabile
energia). "È fredda come il ghiaccio e si vede che è lì solo
per bere l'amaro calice e affrontare, per dovere d'ufficio, una
platea schierata su ben altre posizioni. Oltretutto la giovane
funzionaria non fa nulla durante il suo intervento per stemperare il
muro di ghiaccio e rimbecca stizzita ad ogni minima interruzione
senza capire che un'assemblea spontanea non è un congresso
scientifico o un politburo e lasciando trasparire la distanza
siderale tra lei e il 'plebeo' e 'demagogico' consesso [...]".
(2) Nimby trentino si è
costituita come associazione per informare e argomentare
costruttivamente sui migliori modi (al fine della salvaguardia della
salute e della tutela del territorio), di gestione e di smaltimento
dei rifiuti, siano essi urbani, industriali o speciali. Con la
certezza che il Trentino saprà rinunciare alla prospettiva
dell'inutile e inquinante inceneritore. Che è stato bloccato.
Inutile sottolineare che nella vicenda dell'inceneritore di Trento
come di tante altre simili, le organizzazioni ambientaliste o sono
state alla finestra o si sono collocate "dall'altra parte della
barricata".
Bibliografia
Bobbio L. (2011) Conflitti
territoriali: sei interpretazioni, TemaLab 4 (4): 79-88.
Brechin S. R. (2003)
Comparative Public Opinion and Knowledge on Global Climatic Change
and the Kyoto Protocol: The U.S. versus the World? International
Journal of Sociology and Social Policy 23 (10): 106-134.
Burningham K., Thrush D.
(2004). Pollution concerns in context: a comparison of local
perceptions of the risks associated with living close to a road and a
chemical factory. Journal of Risk Research 7 (2): 213–232.
Burningham K. (2000) Using
the language of NIMBY: a topic for research,not an activity for
researchers. Local Environment 5 (1): 55–67.
EWEA (2009) European Wind
Energy Association: wind energy — the facts. London: Earthscan.
Fedi A., Mannarini T. (2008)
Oltre il Nimby. La dimensione psico-sociale della protesta contro le
opere sgradite, Milano, Franco Angeli.
Horst D. van der (2007)
NIMBY or not? Exploring the relevance of location and the politics of
voiced opinions in renewable energy siting controversies, Energy
Policy 35 :2705–2714.
Upreti, B.R., van der Horst,
D., 2004. National renewable energy policy and local opposition in
the UK; the failed development of a biomass electricity plant.
Biomass & Bioenergy 26 (1): 60–69.
Wolsink M. (1994).
Entanglement of interests and motives: assumptions behind the
NIMBY-theory on facility siting. Urban Studies 31 (6): 851–866.
Wolsink M. (2000). Wind
power and the NIMBY-myth: institutional capacity and the limited
significance of public support. Renewable Energy 21: 49–64.
Wolsink, M. (2006) mInvalid
theory impedes our understanding: a critique on the persistence of
the language of NIMBY. Transactions of the Institute of British
Geographers 31: 85–91.
Zoellner J., Schweizer-Ries
P., Christin Wemheuer C. (2008) Public acceptance of renewable
energies: Results from case studies Germany Energy Policy
36:4136–4141
Associazione
Gestione
Corretta
Rifiuti
e
Risorse
di
Parma
-
GCR
Parma,
4 dicembre 2012
Nessun commento:
Posta un commento