domenica 2 settembre 2012

Biogas e sostenibilità, moratoria indispensabile


La stragrande maggioranza delle centrali a biogas già in funzione, e anche quelle in attesa di autorizzazione, ricorrono, quasi esclusivamente, a colture dedicate (mais soprattutto) per la loro alimentazione.
Una situazione non sostenibile, né dal punto di vista energetico, né da quello ambientale.
In Emilia Romagna si prevedono 465 impianti a biogas con una potenzialità di circa 1MWe.
Così per alimentarle occorrerebbero addirittura più dei 100.000 ettari coltivati già oggi a mais, davvero un'assurdità.
Per limitare la prospettiva nel luglio 2011 la Regione ha escluso gli impianti a biogas nelle zone Dop del Parmigiano-reggiano, su pressione del consorzio, e infine di recente la delibera “impianti a biomasse a saldo zero”.
Che significa che nelle aree a rischio ambientale potranno essere installati nuovi impianti solo  in due casi: se sostituiranno impianti preesistenti o se saranno affiancati da interventi che garantiscano la riduzione di inquinamento sul territorio (cogenerazione e trigenerazione, utilizzo del calore, teleriscaldamento, efficienza energetica, piste ciclo-pedonali, ecc.).



Per le aree dell’Emilia-Romagna in cui i parametri di qualità dell’aria sono rispettati la delibera regionale promuove un approccio di tipo cautelativo con valutazione preliminare, tesa a valutare il cumulo degli impatti generati da più impianti. Le nuove regole interessano gli impianti a biomasse per la produzione di energia elettrica di potenza termica superiore a 250 kwt.
Il saldo zero riguarda le emissioni di Pm10 e di diossido di azoto, da applicare in qualsiasi zona, inquinata o meno.

Le zone “verdi” (dove l'inquinamento è meno presente) sono in pratica quelle di montagna.
Per saldo zero si intende la sostituzione delle vecchie stufe a legna con centrali termiche a biomassa che dovrebbero addirittura migliorare la qualità dell'aria. In realtà il filtro a multiciclone delle centrali a biomassa non abbatte minimamente i Pm10, ma solo la fuliggine.
Le emissioni dipendono poi dalla tipologia di cippato che viene bruciato, che se è fresco, umidità al 50%, determina emissioni superiori agli stessi standard dell'Arpa, che sono però solo indicativi, mancando ogni tipo di controllo.
Discorso diverso per le le emissioni delle moderne stufe miste pellet-legna, 7-8 volte più basse di quelle delle centrali a biomassa e già in voga in montagna presso i privati.
La compensazione per l'inquinamento superiore deriverebbe dal teleriscaldamento, che consente lo spegnimento delle singole caldaie, ma se l'emissione è comunque maggiore delle stufe a pellet non si capisce dove stia il vantaggio.
Il saldo zero è una chimera in particolare per gli impianti a biogas, visto che non esistono normative specifiche per le emissioni, e valgono quelle generiche per le biomasse, come non esistono normative per le emissioni odorigene, quel diossido di azoto pungente al naso e pericoloso per gli alveoli polmonari.
ll saldo zero è uno specchietto per le allodole nelle zone verdi, quelle a basso inquinamento, come la montagna. Figurarsi in quelle gialle, arancioni o rosse in cui si cercherà di ridurre gli impatti con piste ciclabili. Davvero curioso.
Le norme emanate dalla regione Emilia Romagna, “Criteri tecnici per la mitigazione degli impatti ambientali nella progettazione e gestione degli impianti a biogas”, non risolvono minimamente i problemi derivanti dalla cattiva progettazione e gestione degli impianti.
Da parte dei cittadini e dei comitati c'è una richiesta forte di norme che permettano lo stop a impianti già in attività, ma che stanno causando gravi disagi alla popolazione.
Anche se la combustione di biogas produce teoricamente emissioni inferiori a quelle derivanti  da oli vegetali o da biomasse legnose, va sottolineato utilizzare biogas per produrre energia elettrica e calore è poco efficiente.
Considerando i rendimenti medi dei motori cogenerativi in commercio, si può assumere che meno dell’80% dell’energia termica contenuta nel biogas venga effettivamente valorizzata, circa il 36% come energia elettrica e circa il 40% come calore recuperato dai circuiti di raffreddamento.
Il resto del calore contenuto nel biogas viene disperso nell’ambiente sotto forma di calore residuo nei gas di scarico. Si calcola che un impianto da 1 Mw perda con i gas di scarico 36 tonnellate annue di metano, corrispondenti a circa 1.000 tonnellate annue di CO2.
Ovviamente questi computi non sono minimamente presi in considerazioni e spariscono dai calcoli della efficienza degli impianti, che vengono presentati all'opinione pubblica come il nuovo Eldorado per liberarsi della dipendenza dal petrolio.
Il biogas deve subire una complicata serie di depurazioni, senza le quali si ha malfunzionamento e corrosione dei motori, processi che comportano anch'essi maggiori emissioni nocive.
Il biogas che esce dal biodigestore deve essere desolforato tramite lavaggio, poi deumidificato tramite refrigerazione, quindi filtrato dalle polveri con filtri a sabbia che trattengono il particolato.
A loro volta le emissioni della cogenerazione prima di poter essere rilasciate in aria devono subire un processo di lavaggio, passare attraverso biofiltri e meglio ancora attraverso filtri a carboni attivi, senza i quali non si abbattono le emissioni odorigene.
Ma tutto questo nella realtà non succede.
Un impianto a biogas non è subordinato al rilascio di alcuna autorizzazione alle emissioni in atmosfera (ai sensi dell'art. 269, comma 14,parte V del D.Lgs. 152/2006).
Detti impianti devono solo rispettare solo i valori limite di emissione espressi come concentrazioni massime ammissibili per ciascun inquinante, vale a dire 800 mg/Nm3 di monossido di carbonio (CO), 500 mg/Nm3 di ossidi di azoto (NO2), 150 mg/Nm3 di carbonio organico totale (COT), 100 mg/nM3 di particolato (PM10-PM1), 10mg/Nm3 di composti inorganici di cloro.
E' sufficiente che le ditte produttrici dichiarino emissioni rientranti nei range perché Arpa e Ausl certifichino la loro idoneità,  come accaduto per i progetti di Felino (Pr) e Palanzano (Pr). Nei progetti si parla di un controllo all'anno, massimo due, ovviamente eseguiti e certificati dalla ditta stessa.
Tenendo conto dei volumi dei prodotti utilizzati per la produzione del biogas, l’unica filiera sostenibile non può che essere quella cortissima, non superiore ad una decina di km. (o comunque molto inferiore ai 70 km. della cosiddetta filiera corta), che ridurrebbe le emissioni di migliaia di mezzi pesanti, direttamente proporzionali ai km. percorsi.
Reflui animali, scarti agricoli e rifiuti organici vengono prodotti incessantemente dagli allevamenti zootecnici, dall’agricoltura, dalle industrie agroalimentari, da tutti noi.
Tutto questo può essere utilizzato per il biogas e sarebbe logico che gli incentivi favorissero solo questo tipo di utilizzo, anziché quello dei prodotti derivanti da colture dedicate. Questo è soprattutto vero per i rifiuti organici, il cui corretto uso aumenterebbe  la percentuale di raccolta differenziata effettivamente riciclata, a vantaggio di tutti.
Per il suo utilizzo ottimale, si sottopone già ora il digestato a separazione solido/liquido, ottenendo due frazioni: una solida ed una liquida, detta anche chiarificata.
La frazione solida, che è la parte meno consistente del digestato, è costituita da sostanza organica, che incorporata nel terreno ne migliora le caratteristiche, funzionando da ammendante.
La sostanza organica, inoltre, è in grado di trattenere grandi quantità di acqua, caratteristica importante considerando i cambiamenti climatici.
Nel caso di agroindustrie o di allevamenti zootecnici industriali, la quantità di digestato liquido è così grande da non essere all'oggi gestibile. Occorre ricorrere a metodi per l’estrazione dell’azoto ammoniacale (stripping dell’ammoniaca o degasazione della stessa) e la sua trasformazione in un fertilizzante più concentrato e quindi più facilmente gestibile (solfato d’ammonio), che andrà a sostituire i fertilizzanti azotati di sintesi.
La prima richiesta agli amministratori (Regione Emilia Romagna in primis) riguarda la sostenibilità sociale degli impianti a biogas già in attività, che sono causa di gravi disagi per le zone prossime alle centrali, soprattutto per l’emissione di cattivi odori per periodi prolungati.
Non è accettabile che alcuni traggano profitto da attività che danneggiano altri.
Norme chiare che consentirebbero a sindaci e enti provinciali di costringere alla sospensione di ogni attività quegli impianti che sono causa di gravi disagi per i cittadini.
Tale moratoria avrebbe come conseguenza anche la sospensione di ogni forma di incentivo fino a che si creino le condizioni per una ripresa dell’attività, che non causi più alcun disagio.
Interventi che riguardano sia impianti in fase di autorizzazione, che già autorizzati.
Si deve pure considerare lo spreco della capacità fertilizzante dei digestati e la mancata sostituzione di concimi chimici di sintesi con gli stessi digestati. Un esempio di tali sprechi è anche la pratica di ricorrere a trattamenti di nitrificazione e successiva denitrificazione (impianti SBR) che, disperdendo l’azoto, hanno come conseguenza l’impossibilità di sfruttare la capacità fertilizzante della frazione liquida dei digestati in sostituzione dei concimi chimici di sintesi.
Una conseguenza, forse inattesa, delle restrizioni all’uso dei digestati nelle zone di produzione del Parmigiano Reggiano, è stata la concentrazione delle richieste di autorizzazione alla costruzione di centrali a biogas nelle zone non interessate dal Parmigiano Reggiano, creando, in aree come la pianura bolognese e ferrarese, il rischio di una concentrazione assolutamente insostenibile di centrali.
Gli stessi comuni che si sono opposti all'installazione di impianti a biogas, come Felino (Pr) e Toano (Re), lo hanno fatto senza entrare nel merito del loro carattere speculativo e della nocività delle emissioni. Hanno usato un artificio amministrativo e legale, la modifica del piano urbanistico, per negare l'area richiesta all'uso delle rinnovabili e mettendone a disposizione un'altra.
Posizione pilatesca e pericolosa: immaginatevi se la ditta richiedente accettasse la diversa destinazione d'area per l'impianto richiesto, il comune non avrebbe più alcun motivo di opporsi alla sua realizzazione.
Per arrivare a questo, è evidente la necessità di una moratoria nella concessione delle autorizzazioni che consenta di porre un freno agli impianti a biogas, evitando così di causare danni e portando il settore verso la sostenibilità.
Moratoria già  richiesta a gran voce dai comitati del Ferrarese e del Bolognese cui si associa anche Rete Ambiente Parma, a nome dei Comitati di Palanzano e Felino.

Giuliano Serioli

Rete Ambiente Parma
2 settembre 2012

www.reteambienteparma.org  -  info@reteambienteparma.org
comitato pro valparma - circolo valbaganza - comitato ecologicamente - comitato rubbiano per la vita -
comitato cave all’amianto no grazie - associazione gestione corretta rifiuti e risorse – no cava le predelle –
associazione per l'informazione ambientale a san secondo parmense



Nessun commento:

Posta un commento