giovedì 26 gennaio 2012

Risorse naturali ed energie rinnovabili

disastro o opportunità?

Il capitalismo finanziario mostra una straordinaria razionalità nell'estrarre valore da ogni cosa, non tenendo mai conto delle conseguenze che il lavoro prodotto dall'uomo ha sulla salute e il reintegro delle risorse naturali.
In questo senso dimostra un'assoluta irrazionalità.
Anzi, il suo comportamento irrazionale nei confronti della natura e degli ecosistemi è addirittura maggiore dell'irrazionalità delle sue politiche del lavoro e della protezione sociale.



C'è una assoluta indisponibilità a fare oggetto di preoccupazione e di studio gli effetti del lavoro dell'uomo sugli ecosistemi.
In tutto il mondo vige un unico criterio di valorizzazione delle risorse naturali.
Abbattimento delle foreste pluviali per trarne legname a scopi industriali; scavi minerari e perforazioni in ecosistemi sensibili; industrializzazione della pesca in mari e oceani, con conseguente distruzione di sistemi tradizionali di pesca (fonte di sostentamento per le popolazioni rivierasche) e messa a rischio della sopravvivenza di molte specie ittiche; ingabbiamento di tutti i sistemi fluviali tramite dighe, modificando in modo grave l'equilibrio naturale.
Senza l'apporto del sistema finanziario internazionale la vertiginosa progressione della valorizzazione (distruzione) delle risorse naturali nei paesi del terzo mondo non sarebbe possibile.
Esiste una correlazione tra la crescita del PIL e del capitale azionario e la contemporanea erosione di massa vivente, attraverso il degrado ambientale e la distruzione di risorse non rinnovabili.
Oltre alla distruzione delle foreste pluviali, il capitalismo finanziario sta conducendo un assalto generalizzato al sistema agro-alimentare del mondo.
Come?
Con la formazione di oligopoli nel mercato delle sementi, nel mercato degli alimenti di base e nel mercato della distribuzione alimentare.
Con l'industrializzazione totale dell'agricoltura, tramite la contrattualizzazione degli agricoltori nominalmente indipendenti e la trasformazione industriale degli alimenti.
Con l'acquisto su vasta scala di terreni agricoli per mano di corporation collegate a quelle che controllano il mercato degli alimenti di base.
La formazione di tali monopoli ed oligopoli alimentari è avvenuta non per espansione di singole società, ma per ondate di fusioni ed acquisizioni sotto il ruolo propulsivo della finanza internazionale.
Il mercato delle sementi è controllato da 10 corporation.
Il commercio mondiale delle granaglie è controllato da 3 società.
Un quarto del mercato mondiale degli alimenti confezionati e delle bevande è controllato da 10 società.
Due terzi del pollame del mondo è lavorato e confezionato da 8 corporation.
Metà dei suini e dei bovini del mondo sono allevati e lavorati da stabilimenti industriali gestiti
da grandi corporation.
In Africa si stima siano stati acquistati 15 milioni di ettari da fondi di investimento cinesi, americani ed arabi.
In Argentina 2,4 milioni di ettari.
In Ucraina 3 milioni di ettari.
Sui terreni acquistati vivevano popolazioni contadine, che sono state espropriate con indennità irrisorie. Solo una loro frazione minima è stata reimpiegata come operai dell'agroindustria.
La gran massa è andata ad ingrossare gli slums delle metropoli del terzo mondo.
L'assalto del capitalismo finanziario al sistema agroalimentare per impiantare enormi monoculture estensive ha distrutto larga parte dell'agricoltura tradizionale, fondata sulla piccola azienda pluricolturale.
Invece di fornire tecnologie adeguate per trattenere sulla terra il maggior numero di contadini, questa demenza civile ha ridotto la biodiversità delle piante alimentari, distruggendo i mercati locali (il burro della Baviera, sussidiato alla UE, può essere venduto in Mongolia ad un prezzo inferiore al luogo di produzione), facendo fare il giro del mondo ai propri alimenti preconfezionati.
Il mondo sviluppato (?) ha sottratto decine di milioni di ettari alla catena alimentare per destinarli alla produzione di biocarburanti.
Gli USA destinano alla produzione di biocarburanti un quarto della produzione annua di mais e grano, sottratta di fatto all'alimentazione di aree del mondo sottonutrite e potenzialmente socialmente esplosive.
A partire dagli accordi di Kyoto, l'interesse del capitale finanziario per le bioenergie non è più limitato allo sviluppo dei biocarburanti, ma si è ampliato alle energie rinnovabili, diventate succulente occasioni di valorizzazione per gli incentivi di cui gli stati firmatari le hanno dotate.
E' forse cambiato forse l'atteggiamento irrazionale nei confronti della natura?
Assolutamente no.
Ha solo attivato la sua razionalità strumentale verso queste nuove possibilità speculative.
Perché lo sviluppo delle energie rinnovabili può essere sia una straordinaria occasione di democrazia economica, sia un'ulteriore occasione di speculazione e di predazione dell'ambiente naturale.
I dati sul solare fotovoltaico installato nel 2011 nel mondo ci dicono che il nostro Paese è primo al mondo con quasi 7.000 Mw, avendo superato la stessa Germania prima detentrice del primato.
Siamo improvvisamente diventati un Paese ambientalmente virtuoso?
Singoli cittadini e piccole amministrazioni riempiono i loro tetti di pannelli fotovoltaici, come accade in Germania?
Niente di tutto questo.
Tranne rare eccezioni, si sono moltiplicati a dismisura "parchi fotovoltaici" a terra, occupando decine di migliaia di ettari di terreno.
Suolo che, una volta dismessi gli impianti, avrà perso la sua fertilità.
Un esempio indicativo lo possiamo vedere nel nostro territorio, con il progetto "Fotovoltaico insieme", sostenuto dalla Provincia.
L'Amministrazione, forte dei suoi legami coi piccoli comuni carichi di debiti, ha sospinto un project financing con cui attirare i capitali delle finanziarie, invogliandole con le tariffe massime concesse dallo stato ai comuni.
Ogni comune, una volta costruito il parco fotovoltaico sul suo territorio e ricevutane la titolarità dal GSE, la cede alla finanziaria che aveva messo i soldi, facendole così ottenere la tariffa massima di incentivazione per vent'anni e raddoppiare, così, il capitale investito.
E l'utile per i comuni?
Niente elettricità gratuita, niente soldi da investire in opere, ma solo qualche decina di migliaia di euro, quale compensazione per il terreno occupato.
In pratica un affitto.
E alla Provincia cosa ne viene in tasca?
Un 5% per ogni impianto, che moltiplicato per 30 o 40 fa una bella sommetta. Poi un ritorno d'immagine: essersi fatta promotrice di tutta quell'energia rinnovabile.
Ma soprattutto aver procacciato commesse alle ditte del settore, tutte affiliate alle coop, parte integrante di un nuovo sistema di potere.
Poca cosa, però, di fronte alle distese di torri eoliche del meridione del paese, magari neanche allacciate alla rete elettrica ancora insufficiente in capacità conduttrice, ma già in carico al GSE e in grado di ingrossare i capitali mafiosi con milioni di euro provenienti dalle nostre tasche.
Ma ancora peggio è la rincorsa alle biomasse.
Bruciare legna e granaglie per produrre energia elettrica è altamente inquinante ed antieconomico. Ma non importa.
L'economicità di quegli inceneritori è data dagli incentivi pubblici.
Industriali del Nord come Marcegaglia e Maccaferri ne hanno impiantati a decine in Puglia e Calabria. Inceneritori da 30 fino a 50 Mw e più. Il combustibile arriva via nave a Taranto e Crotone. Si tratta di scarti legnosi da deforestazione delle foreste pluviali.
Far man bassa di certificati verdi, degli incentivi finanziati con le nostre bollette è un affare così ghiotto da essere diventato una vera e propria tentazione per ogni azienda e finanziaria che si rispetti.
A Trecasali come a Russi, in Romagna, è la Sadam Eridania a volerli, ricattando i sindacati per accordarsi con la Regione, alla faccia dei cittadini, dei lavoratori e della loro salute.
E pur di avere quei certificati sottraggono a colture alimentari migliaia di ettari di buona terra per produrre insilato di mais da cui ricavare gas e così produrre elettricità. Questo nel Cremonese, nel Lodigiano, in Romagna, nel Veneto, in Lombardia.
Sono i cosiddetti biodigestori anaerobici, contro cui si è mobilitata perfino Slow Food, oltre ai cittadini ed alle associazioni degli agricoltori
E tutta la pianura padana ne è ormai costellata, come non bastasse l'inquinamento civile, viario ed industriale che la rendono già la macroregione più inquinata d'Europa, chiusa com'è dalla cerchia delle montagne.
Nel mondo alla pari solo con il Guandong, in Cina.
L'unico contrasto ai veleni che ne promanano sono i boschi delle montagne, risorti rigogliosi dopo l'abbandono dei borghi da parte della gente e capaci di catturare CO2 e fermare il resto.
Ma quei boschi ora sono minacciati.
La speculazione si è buttata sul business della legna da ardere, falcidiando così tanto quel capitale verde da forare i boschi come fossero gruviera. Gli amministratori locali che dovrebbero fermare tale scempio sono proprio quelli che lo caldeggiano: "siamo seduti su un altro petrolio e neanche ce ne accorgiamo", sono le parole di un funzionario all'agricoltura della Provincia.
E a chi chiede i dati di tale scempio per gli anni 2010 e 2011, gli amministratori rispondono che non sono disponibili.
Ci prendono in giro.
A quei tagli si aggiungono ora anche quelli industriali a pianta intera promossi dalla Provincia stessa, coi finanziamenti della Regione, per rifornire di cippato le centrali termiche che intende impiantare in ogni borgo di montagna. E siccome tali inceneritori producono, per ora, solo calore e non elettricità vengono definiti virtuosi, ma sono pur sempre inquinanti ed antieconomici come gli altri e in montagna non c'è assolutamente bisogno del teleriscaldamento.
E' uno sperpero.
Come uno sperpero sarebbe impiantare enormi torri eoliche sui crinali per produrre poca elettricità e al contrario cementificare le vette e taglieggiare ulteriormente i boschi con nuove strade di supporto.
Questa l'intenzione di De Matteis, sindaco di Corniglio, al passo del Cirone e di Bodria, sindaco di Tizzano, sul monte Caio.
Ma le energie rinnovabili, se agite in modo sostenibile, possono essere davvero il futuro.
Un futuro di democrazia economica e di sviluppo della sostenibilità per l'ambiente della nostra presenza invasiva.
Le risorse e i finanziamenti pubblici dovrebbero essere indirizzati per tappezzare i nostri tetti di pannelli fotovoltaici in modo che ogni famiglia possa diventare autonoma energeticamente e invogliata a ristrutturare la propria casa per risparmiare l'energia che produce.
Tutto potrebbe iniziare dai piccoli comuni delle aree più abbandonate e meno fortunate economicamente.
Fondando una ESCO (Energy Service COmpany), previste proprio dal decreto Bersani del 2007 come favorite per l'incentivazione delle energie rinnovabili, e titolandole con le proprietà municipali, come il palazzo stesso del comune, la scuola etc., riuscirebbero a capitalizzarla anche se il comune risulta indebitato e potrebbero così accedere a finanziamenti e mutui per impiantare il fotovoltaico sui tetti, previo accordo coi cittadini.
Una volta intestatisi l'impianto, riscuoterebbero per 20 anni dal GSE la tariffa massima di incentivazione, la quale presso qualsiasi banca varrebbe come un titolo di garanzia con cui ottenere un ulteriore mutuo per ristrutturare il paese dal punto di vista del risparmio energetico e dare lavoro così anche all'edilizia locale.
Tale percorso energeticamente virtuoso ed economicamente vantaggioso potrebbe poi essere applicato anche a singole frazioni, ad aziende agricole, a quartieri cittadini trasformatisi in associazioni energetiche, o cooperative di produzione...
Ogni singolo cittadino, invece di ottenere la sua quota di incentivi proporzionale ai pannelli sui suoi tetti, potrebbe optare per avere l'elettricità gratuita e così pure la singola scuola, l'azienda artigiana.
Se i biodigestori anaerobici, impiantati solo per ricavarne incentivi e alimentati con coltivazioni dedicate che rubano terreni all'alimentazione, sono degli ecomostri cui opporsi, tali non sono quelli che vengono alimentati con le deiezioni animali, a patto che non siano troppo grandi ed invasivi per il territorio.
Ogni allevamento, anzi, dovrebbe averne uno, soprattutto per impedire che i nitrati di tutti quei liquami finiscano in falda, inquinandola. Gli incentivi che l'azienda ricaverebbe dalla produzione di gas e quindi di energia elettrica sarebbero il giusto compenso per aver reso l'allevamento sostenibile per l'ambiente.
Questo vale per l'enorme quantità di allevamenti della val Padana e ancor più per quelli della nostra Food Valley, che inquinano non solo la falda acquifera ma anche gli stessi terreni da cui ricavare tutti quei pregiati coltivi.
Le ESCO, oltre che uno strumento di sviluppo economico, sarebbero anche un'occasione di democrazia partecipata e di trasparenza. Non sarebbe solo l'ente locale a farne parte ma anche le aziende artigiane che monterebbero i pannelli e che farebbero manutenzione e i lavoratori edili che farebbero le necessarie ristrutturazioni dei tetti per l'impianto dei pannelli.
Un modo per i cittadini
di partecipare ai progetti delle amministrazioni e di controllarne direttamente le voci di spesa e l'utilità per il bene pubblico.

Giuliano Serioli

Rete Ambiente Parma

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